L’idea di frontiera in se stessa, sganciata da localizzazioni geopolitiche, ma ancora saldamente stretta al suo immaginario. E’ in questo spazio che si muove Western, opera terza della tedesca Valeska Grisebach, in concorso a Un Certain Regard, che sin dal titolo mette in campo le pulsioni basilari del genere cinematografico per eccellenza, liberandole dall’armamentario originario e spingendole in una tensione che sta nella realtà. La temperie è quella cui appartiene il Toni Erdmann di Maren Ade (al quale, non a caso, la Grisebach aveva collaborato in fase di sceneggiatura), ovvero quella capacità di spiazzare sul terreno piano della realtà le dinamiche di genere (la commedia lì, il western per l’appunto qui), schiacciandole sotto il peso di uno sguardo che osserva più le dinamiche della quotidianità che quelle dell’eccezionalità e cercando eroi classici nella sfera del presente più contraddittorio. In Western Valeska Grisebach trova lo scenario della frontiera nello scavalcamento dei confini culturali e nel confronto tra identità che si incontrano loro malgrado: ci sono degli operai tedeschi che giungono in un angolo di Bulgaria per realizzare un pozzo e si chiudono, come in un fortino, nel loro cantiere. Dall’altra parte ci sono gli abitanti del paesello limitrofo, ovviamente diffidenti nei confronti degli estranei, chiusi nel loro mondo. Su questa contrapposizione il film elabora un confronto che si gioca sul terreno vago della comunicazione, ognuno parla la sua lingua, ognuno cerca il suo spazio.
Il conflitto, come in un buon western, nasce dalla spartizione dell’acqua, che non basta ad alimentare il cantiere e il paese. L’invasore e l’assediato occupano posizioni reciproche e in mezzo c’è l’eroe, Meinhard, che giunge assieme agli altri operai ma, manco a dirlo, è uno spirito libero e solitario: non ha famiglia (preserva solo il ricordo del fratello morto), è un reduce (dall’Afghanistan), un duro che non usa la forza, ma applica l’intelligenza, il confronto, la ricerca istintiva di una giustizia che è equilibrio tra le parti. E’ lui che si spinge sempre un passo più avanti dei suoi colleghi nella ricerca di un contatto autentico con gli abitanti del posto, cavalca il bianco cavallo del capo del villaggio, diventa amico di questo, coglie l’amore di una ragazza. Gli screzi non mancano (la bandiera tedesca piazzata sul cantiere rubata dai bulgari, una mano a poker troppo fortunata per Meinhard…), ma alla fine quello che preme alla Grisebach è innescare tutti i temi della frontiera del cinema western per parlare senza grandi lezioni moralistiche del tema centrale del nostro mondo attuale: la convivenza tra mondi differenti, la vicinanza tra uomini lontani, l’innesto di sensibilità nell’idea di una comunità che non è più scritta sui confini ma sul loro superamento. L’impianto stesso del film è in questo senso determinato e determinante: la scelta è realistica, piana, detiene il potere della simbologia (il porticato con l’eroe seduto che osserva e fuma, la festa coi balli, il duello, il tavolo di poker, i cavalli, l’acqua…), ma affida tutto a una scena neutra e concreta. E allora niente scene madri, ogni scontri stemperato e, soprattutto, niente attori professionisti, ma veri operai e vera gente del posto, gli uni di fronte agli altri. E poi, soprattutto, l’idea stessa di scrivere un intero film superando il valore della parola, dei dialoghi in una dialogica dei gesti, degli sguardi, delle azioni che scavalca le lingue, il tedesco da una parte e il bulgaro dall’altra, poche parole imparate per capirsi e tutto il resto è intuito… Come nel suo primo film, Mein Stern (che vinse nel 2001 il Torino Film Festival), storia di una ragazzina troppo cresciuta per la sua età e quindi non adatta al suo universo adolescenziale, anche in Western la Grisebach insiste su un personaggio come Meinhard, capace di vivere la sua disappartenenza al mondo in cui agisce come un valore aggiunto alla capacità di capire gli altri per capire se stesso.