Il cielo è un personaggio in Twin Peaks e più fra gli uomini ci si tormenta e più le nuvole si fanno minacciose, e la tempesta imminente viene amplificata da quelle cime che sono nere e annunciano la fine, una fine. Ma a volte il cielo si schiarisce e sembra attraversato da una scia, da una luce (come dopo l’investimento del bambino) che ci proietta sopra gli errori e gli affanni dei personaggi. Prima di rientrare nel mondo Cooper è stato cielo. Un cielo sereno e stellato dove si può assaporare “la beatitudine di chi vive ignorando se stesso”, sono parole del sublime Jón Kalman Stefánsson (non mancate i suoi libri, li pubblica Iperborea) che Lynch non dovrebbe mai avere letto ma che misteriosamente definiscono un certo clima dell’ultimo capolavoro del regista di Velluto blu. Che ha la capacità di trasformare la tv in un portale minaccioso, e di teorizzarlo fin da subito: attenti da quella scatola di vetro può uscire qualcosa di terribile e misterioso. Il ragazzo sul divano che osserva l’inquietante e vibrante scatola nascosta dietro la finestra di un palazzo di New York ci dice anche altro: che il prodotto della tv (americana) non è il programma ma il pubblico. Questo di solito. Qui c’è molto di più. A partire dal fatto che si tratta di un film di 18 ore, concepito come una opera unica (per questo le puntate sono divise in parti), colma di immagini inimmaginabili, di esaltazione della potenza dell’attesa e del silenzio.
Se poi ci si avventura di fronte allo schermo con un notes, si finisce per appuntarsi una serie di frasi (all’apparenza) prive di senso:
Remember 430. Richard and Linda
253.Time and time again
O si assiste a sequenze situazioniste in puro stile lynchano attraversate da geniali infrazioni/omaggi: come quando l’agente Albert Rosenfeld (Miguel Ferrer) se ne va in giro in una New York sferzata dalla pioggia e se ne esce con un irresistibile:
Fuck Gene Kelly you motherfucker!
La questione numerica appassiona molto in Usa, ma ad oggi, nelle furiose discussioni on line nessuno è riuscito a trovare una chiave di lettura. Nel 2017 Twin Peaks sembra diventato più freddo e più duro con una deriva nostalgica. Dovuto al fatto che si comincia da dove ci si era interrotti: l’agente Dale Cooper è inchiodato nella Lodge Black, la lobby a tinte rosse e pavimento a scacchi del mondo sotterraneo in cui è stato intrappolato per 26 anni. Un doppelgänger malvagio (sempre MacLachlan, una sorta di Elvis psicopatico in una giacca di cuoio, con una ondata di capelli improponobile) ha preso il suo posto. Cooper potrà liberarsi con esiti paradossali, il suo gemello malvagio promette di non mollare tanto facilmente nonostante sia finito in galera.
Ineludibile digressione lacaniana
Sul fatto che Lynch sia imbevuto del pensiero di Lacan non sussiste il minimo dubbio. Secondo Lacan sul piano simbolico, dove si attua il legame tra la coazione a ripetere, la memoria e l’accesso al linguaggio, si svolgerebbe una continua dialettica tra bisogno e desiderio che, ripetendo allucinatoriamente l’esperienza passata, ritrova l’oggetto perduto sul piano fantasmatico e cerca una realizzazione. La dinamica del desiderio è guidata dalla “logica della mancanza”, che si manifesta sia in modo negativo sul registro reale (come compromesso nel sintomo) sia in modo positivo sul registro immaginario (nel sogno prima di tutto). Prendete una qualsiasi parte di Twin Peaks e leggetela attraverso degli “occhiali lacaniani” ne sarete soggiogati…
Twin Peaks tiene saldamente fede alla forma linguistica dell’inconscio e lo fa polifonicamente attraverso forme che si scontrano e si spezzano senza preoccuparsi minimante della materia, senza abbandonarsi al mimetismo onirico riuscendo comunque ad esaltare la connotazione fantastica di ogni inquadratura. In questo processo è fondamentale l’uso del suono: infernale e realistico, puro rumore di fondo dell’universo, impressionante per quantità di informazioni reali che comunica e al tempo stesso spiazzante per come ci trascina nel vuoto cosmico ma si rimane sempre prigionieri, Lynch lo sa: “l’intero mondo è strano, ci si è tutti dentro, e si apre la porta si è ancora dentro, dovunque…”