Il Torino Film Festival ha reso omaggio a Harun Farocki (1944-2014), documentarista, filmaker, video artista e saggista, che ha indagato le radici della visualità contemporanea da un punto di vista filosofico. Ne abbiamo parlato con Barbara Grespi, curatrice della rassegna di 11 film presentati nella sezione Onde, nonché organizzatrice – insieme con Luisella Farinotti, Federica Villa, Giulia Carluccio e Giaime Alonge – di un convegno internazionale, il primo in Italia, dal titolo Pensare con gli occhi. La politica delle immagini nell’opera di Harun Farocki.
Farocki è stato definito l’“archeologo del presente”.
La definizione è della studiosa francese Christa Blümlinger e la si deve al fatto che Farocki ha osservato le immagini della contemporaneità cercando di scoprirne le radici. Mi riferisco a tutte quelle immagini che lui definiva “operative”, cioè che servono non tanto per fare arte, ma per riprodurre la realtà a fini pratici, per esempio le camere di sorveglianza, le riproduzioni nel contesto militare come lo sguardo macchinico attraverso cui i militari si allenano per andare alla guerra. Da questo punto di vista una delle sue opere, dal titolo Serious Games, è una videoinstallazione costituita da quattro schermi – che può avere anche una proiezione cinematografica, infatti a Torino era nella rassegna -, in cui si vedono i videogiochi che vengono usati dai marines della base di 29 Palms per allenarsi (si può scegliere da un menù a tendina l’ordigno da piazzare, come è vestito il nemico…). È una sorta di set che ricorda l’Afghanistan, piuttosto spettacolare, con una simulazione di guerra, mentre su un altro schermo ci sono le simulazioni usate per guarire il trauma reale dei soldati, per cui si vede questa realtà virtuale che viene letteralmente indossata dai militari e si risimula il trauma che hanno avuto. Si tratta di un’installazione complessa che presenta immagini realizzate per scopi operativi, pratici. Farocki è conosciuto proprio per questa ricerca su immagini che hanno sempre avuto lo scopo di misurare, di riprodurre la realtà, non per rappresentarla, ma per agire sul reale. Le più celebri sono le immagini della Prima guerra del Golfo, filmate dalle telecamere installate su bombe e missili che “vedono” e bombardano insieme. Quindi, in questo senso, sono immagini agenti, operative.
Perché il suo sguardo è politico?
In teoria Farocki viene considerato filmaker, documentarista, ma i suoi film non sono mai davvero dei documentari. È piuttosto l’inventore, il pioniere, del “film-saggio”, una sorta di esposizione di una qualche teoria-idea-concetto attraverso le immagini e soprattutto attraverso il montaggio, strumento che usava tantissimo. È il presupposto di sfondo degli studi di cultura visuale che inseriscono il cinema all’interno dello sfondo iconico del nostro presente, per cui non si prende più la singola arte o il singolo medium (la tv, il cinema, la computer grafica in sé), ma si guarda come si relazionano ai materiali visivi che ci circondano. In qualche modo questo mosaico di immagini che si parlano, che sono in relazione le une con le altre, costituisce una posizione politica, per questo parliamo di “politica delle immagini”: Farocki le studia, ne comprende i presupposti, va a scavare. Una delle cose più belle che ha detto è che queste immagini operative nascono dalla paura di compromissione del corpo umano. Tutto parte dall’architetto Meydenbauer che a un certo punto, a metà 800, capisce che anziché rischiare la vita scalando gli edifici per misurarli, può farlo in scala attraverso uno strumento fotografico di misurazione, non di riproduzione. Comincia quindi a fare delle “fotogrammetrie” che sono misurazioni visive dell’oggetto e così il suo corpo non entra in gioco. E questa è una dimensione politica. Da questo tipo di operazione viene fuori il drone, il corpo si toglie dalla situazione per cui vedi, agisci, cogli, ma non implicandoti più, per cui sono immagini anche molto fantasmatiche. Non a caso uno dei saggi di Farocki si chiama Phantom Images e parla di immagini fantasma, non ci sono più corpi dentro.
Farocki nasce come critico.
Sì, è stato un saggista, è partito da Filmkritik negli anni 60, quindi è un critico che si trasforma e che quando pensa alle immagini ne scrive. Il convegno ha lavorato su questa sua figura sfaccettata che, da un lato, ha ripensato la storia del cinema in un quadro di immagini di tutti i generi. A questo abbiamo affiancato un focus specifico sulla guerra e un altro sugli altri dispositivi, tra cui anche le videoinstallazioni.
Il pubblico ha apprezzato visto che le sale erano pienissime.
Sì, è stato un successo importante perché l’Italia è forse il posto in cui Farocki è meno noto. Non succede così in Germania, ovviamente visto che è il Paese da cui proviene, né tantomeno in Francia dove ci sono Georges Didi-Huberman e Christa Blümlinger o a livello internazionale, dove il suo principale studioso è Thomas Elsaesser.
Che hanno partecipato al convegno…
Sì Christa Blümlinger ha fatto la key note, ovvero una lezione di inquadramento dei problemi parlando di come Farocki lavora sull’archivio di immagini in senso derridiano. L’apertura invece è stata affidata a Pietro Montani che ha analizzato il ruolo antropologico delle immagini, ovvero in che senso le immagini servono e sono sempre servite all’uomo e in che senso possono servire oggi. Thomas Elsaesser, che era la guest star, ha invece inquadrato tutto Farocki, soffermandosi in particolare su Parallel I-IV.
Videoinstallazione che, fino al 12 febbraio, è in mostra alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo.
Sì, è l’ultima opera ufficiale della filmografia di Farocki, conclusa nel 2014, anno della sua morte. Una videoinstallazione – realizzata con Antje Ehmann, sua moglie, così come tutte le altre videoinstallazioni – sulla realtà virtuale e su come viene creata l’immagine nei videogiochi, anche questa su quattro schermi, in cui si vede il corpo umano, il vento, una gif… Farocki diceva che «le animazioni digitali sono diventate un nuovo modello di riferimento, superando il cinema. Nel cinema, esiste sia il vento, sia quello prodotto da un ventilatore. Le immagini create al computer non hanno due tipi di vento». È un’installazione bellissima, da vedere.
In apertura: Arbeiter Verlassen Die Fabrik (Workers Leaving the Factory)