La trasfigurazione dell’orrore: Fortuna di Nicolangelo Gelormini

Il fuori tempo in cui Nicolangelo Gelormini iscrive Fortuna, suo lungometraggio d’esordio, è quello di un dramma astratto eppure tristemente reale, risalente al 2014 e collocato a Caivano, comune del napoletano. Una di quelle storie di terrore familiare e sociale che si rievocano quasi con timore: vicenda di abusi su bambini, sacrificati da genitori compiacenti a creature dell’orrore nascoste dietro l’angolo, finiti sull’asfalto, spinti dai piani alti dei caseggiati popolari in cui hanno vissuto. Materia per un horror della quotidianità, di fronte alla quale si stenta a non provare la vertigine di una narrazione oscena, ed è probabilmente questa la ragione per la quale Gelormini sceglie la strada della dicotomia narrativa, l’opposizione tra la trasfigurazione astratta della prima parte del film e quella iperrealistica della seconda: entrambe squilibrate, va detto, entrambe necessariamente fuori registro rispetto all’abnorme quotidianità evocata dal fatto di cronaca ricostruito. Non è un film facile, Fortuna: non lo è per il suo autore, al quale va riconosciuto il coraggio di un’ambizione rischiosa, e non lo è per lo spettatore, che si trova a fare i conti con una fiaba surreale che nasconde un libro degli orrori, che nasconde a sua volta gli stralci di una cronaca inimmaginabile…

 

 

Perché scegliere di raccontare questa storia spingendola nella vertigine dell’astrazione e della surrealtà? L’interrogativo non nasce da moralismi critici e divieti estetici, ma dal semplice bisogno di capire la posizione in campo di questo autore di matrice sorrentiniana: dove si colloca rispetto alla storia che sta raccontando e dove chiede a noi spettatori di collocarci… L’imprinting offerto dalla prima parte è nel segno del transfer: Nancy è una ragazzina stranita, che vive con una mamma e un papà affettuosi (Valeria Golino e Libero De Rienzo) ed è convinta di chiamarsi Fortuna e di essere una Principessa di un lontano pianeta che attende di essere prelevata da un’astronave per fare ritorno a casa. Questo almeno è quanto le dicono una ragazzina e il suo fratellino che incontra sul tetto del caseggiato popolare dove Nancy vive, e questo è quanto sappiamo di lei sino a quando la morte del ragazzino, precipitato nel vuoto, non la traumatizza ancor di più e apre la seconda parte del film. A questo punto la realtà si ribalta e si palesa nel suo quotidiano squallore: qui scopriamo che la ragazza si chiama davvero Fortuna, vive con una mamma anaffettiva (Pina Turco), non parla ed è seguita da una psicologa (la Golino) che la aiuta a capire il segreto che la sua vita cela: chi sono gli uomini neri senza volto che la terrorizzano, cosa accade sul terrazzo, dietro quel deposito che tanto la spaventa, il ruolo della madre e degli altri adulti del caseggiato… Insomma tutto quanto le cronache da Caivano hanno svelato nel 2014 e Gelormini ricostruisce bianco su nero nei cartelli del prefinale, che si offrono come terza, didascalica via alla narrazione dei fatti.

 

 

Sembra insomma che, nella prospettiva del film di Gelormini, alla storia di Fortuna non spetti che la strada dell’astrazione psicotica o della depressione post-traumatica, lasciando allo spettatore una verità da apprendere e fruire con didascalica compassione. L’alternativa di una pulsionalità empatica nei confronti del dramma vissuto (qualcosa alla Capuano, per intenderci, o magari alla Luzi & Bellino…) non è data. Forse perché troppo poco controllata e gestibile in funzione di una ricerca estetica che l’autore mette in campo con una creatività anche intuitiva e funzionale, ma di fronte alla quale si resta francamente perplessi. Fortuna si spinge nel territorio di una narrazione affabulatoria dell’orrore che sembra nascondersi nella distorsione psicologica degli eventi, non tanto per paura della verità, quanto per una scelta di campo che certamente è da rispettare, ma che risulta nondimeno discutibile. La struttura oppositiva del film non crea dialogo e comprensione, stigmatizza la frattura di cui la piccola protagonista è vittima e la espone, come mera scelta stilistica, a un formalismo che lascia freddi.