Christophe Conte e Gaëtan Chataigner non potevano immaginare che a pochi mesi dalla realizzazione del loro documentario,Bowie se ne sarebbe andato per sempre, il 10 gennaio 2016, lasciando ancora una volta stupefatto il mondo intero con un brillante e inatteso colpo di coda artistico, e facendo dell’ultimo album Blackstar il testamento di una immensa carriera e la teatralizzazione della propria morte. Bowie è adesso più che mai “un fantasma”, come lo descrivono le parole introduttive (e lo stesso titolo) del lavoro a quattro mani David Bowie, l’homme cent visages ou le fantôm d’Hérouville, in anteprima nazionale al 57° Festival dei Popoli,che attraversa immortale la cultura musicale della nostra epoca, figura seminale per i talenti successivi al quel periodo fra gli anni Sessanta e Ottanta che lo vide imporsi come personaggio cangiante e polimorfico, sorprendentemente innovativo e provocatorio. È a quegli anni, decisamente i più interessanti della sua carriera, che hanno guardato Conte e Chataigner, partiti da un dato di fatto più recente e a suo modo misterioso: in contrasto con la fama di artista dai tanti volti, agli inizi del nuovo millennio David Bowie comincia a farsi schivo e a ritrarsi dall’ossessione per la sua immagine, fino a sparire per dieci anni e preparare in assoluto segreto The next day, pubblicato a sorpresa nel 2013.
Parallelamente, il documentario si concentra sul fascino di un posto particolare e dalle atmosfere spettrali segnato profondamente dal passaggio del Duca Bianco: lo Château d’Hérouville, la grande villa poco distante da Parigi proprietà di Michel Magne, compositore morto suicida nel 1984, ospitava uno studio di registrazione che negli anni ‘70 iniziò ad attrarre diverse rock e pop star (T-Rex, Grateful Dead, Fleetwood Mac, per citarne alcuni…), e dove Bowie giunse in due occasioni – nel 1973 per l’album Pin Ups, e nel 1976 per The Idiot di Iggy Pop e il suo Low –lasciando tracce nei luoghi e nella memoria dei professionisti del suono che lo affiancarono, e che nel documentario sono testimoni del periodo. Da qui lo spunto per omaggiare e ripercorrere l’ascesa di un giovane londinese, all’anagrafe David Robert Jones, che in pochi anni diventa il massimo rappresentante del glam rock, mutando nel giro di un decennio facce e personaggi, da Ziggy Stardust al Thin White Duke, reinventandosi e rinnovandosi, mai sazio della musica e della vita. In questo, L’homme cent visages fatica a trovare punti di originalità che lo distinguano dagli altri prodotti audiovisivi che negli ultimi anni hanno ripercorso la scia della cometa Bowie (persino i filmati d’archivio sono quelli facilmente reperibili in dvd o su Youtube). Lo sguardo si limita a passare in rassegna tutte le forme assunte da Bowie nel tempo, le declinazioni di se stesso, la genialità musicale, e gli aspetti controversi della sue popolarità, dai problemicon le droghe alle accuse di filonazismo. Dove riesce meglio il lavoro di Conte e Chataigner è senza dubbio nel gioco di parallelismi col presente (l’enfasi è sull’eredità musicale recepita dalle nuove generazioni di musicisti, che reinterpretano i suoi classici) e nella riscoperta dello Château d’Hérouville nel contesto della storia del rock, sebbene la figura interessante del suo proprietario, Michel Magne, venga solo accennata. Quelle stanze della residenza, oggi vuote e spettralima all’epoca ricche di strumentazioni all’avanguardia, permisero a diversi musicisti una certa libertà creativa e di trovare un ambiente protetto e ideale alla propria crescita artistica, come lo fu per Bowie che proprio lì, cominciando il lavoro su Low, diede vita al primo capitolo della cosiddetta trilogia berlinese. Le storie curiose sulla sua paranoia di essere perseguitato dallo spettro di Chopin, che abitò un tempo nel castello,contribuiscono al proposito degli autori di L’homme cent visages ou le fantôm d’Hérouville di ritrarlo come personaggio fantasmatico ,inafferrabile e sfuggente, senza forma definitiva, memorabile protagonista di un’epoca passata. A suo modo un’icona irripetibile.