Quando si avvicina Natale, la musica crea un’atmosfera speciale. L’anima calda di quella nera – tra jazz e blues – non appartiene alla nostra tradizione, ma trova per fortuna molti estimatori: in attesa di Gesù Bambino, la stella cometa è Rossana Casale, un’interprete che da anni è sinonimo di note blu raffinate e avvolgenti. Se infatti tra gli album delle solite canzoni natalizie (ne esistono ormai per ciascuna migliaia di versioni di cui si farebbe volentieri a meno) si è cimentata quest’anno Laura Pausini, con indubbia passione ma con risultati nulla più che decorosi, la bionda italoamericana ha sfornato invece a fine novembre Round Christmas, che all’evento si avvicina lateralmente, rileggendo canzoni comunque magiche. La Casale, per la verità, non si è fatta mancare in carriera un disco di standard natalizi (Merry Christmas in jazz, nel 2009), ma con questa operazione se ne emenda autorevolmente. La realizzazione è del Rossana Casale Quintet, e nasce da una serie di live portati in giro per l’Italia, che infine si sono tramutati in disco; per cui l’interprete e autrice è affiancata da Emiliano Begni (pianoforte), Ermanno Dodaro (contrabbasso), Gino Cardamone (chitarra e banjo), Francesco Consaga (sax e flauto). L’artista stessa, affabile ed empatica, ci ha spiegato il senso di un’operazione atipica “intorno al Natale”.
Rossana, Round Christmas non propone esattamente canzoni natalizie classiche…
L’idea nacque improvvisamente lo scorso anno, quando ci furono gli attentati che scossero la
Francia e di riflesso tutto il nostro mondo. Mi ritrovai a pensare che comunque, di lì a poco,
sarebbe arrivato Natale, con il suo carico di gioa, colori, sentimenti positivi. E come talvolta Natale capiti quando tu stai vivendo momenti di dolore e cerchi risposte dentro di te. Mi è venuta voglia di esprimere delle cose, non di canzoni natalizie: per quello ho già dato in passato. E allora mi sono guardata in giro, tra quegli autori che hanno saputo dire cose straordinarie sul tema partendo da qualcos’altro.
I brani hanno provenienza diversa: cose sue ma anche, tra gli altri, di Gilberto Gil, Tom Waits, Edith Piaf, Georges Brassens, Maria Bethânia. Qual è il filo conduttore?
La struttura è il teatro-canzone alla Giorgio Gaber (alla cui produzione ella ha dedicato Il Signor G e l’amore nel 2014, ndr), per cui le canzoni sono introdotte, raccontate, arricchite da aneddoti. Ho scelto pezzi che affrontassero il Natale da una prospettiva laterale, cioè parlando di povertà, di fede, di amore, di sofferenza, di allegria, di umanità in generale. E, naturalmente, che fossero da me cantabili: ci sono infatti composizioni di De Gregori, per esempio, che trovo fantastiche in materia, ma non riuscivo ad adattarle alla mia vocalità. La scaletta è cresciuta di concerto in concerto, ed infine è diventata pure un disco (uscito per l’etichetta Egea, ndr).
Facile arguire su quali sonorità ha puntato…
Il jazz è al centro del progetto: le melodie sono arrangiate in quella chiave, e c’è spazio per la
libertà di espressione e la pari dignità di ciascun componente della band, con la voce strumento tra gli strumenti. Rispetto alle prime uscite in quartetto, negli ultimi concerti e soprattutto nel disco, abbiamo aggiunto nuovi petali al fiore: il banjo e la chitarra di Gino Cardamone, che aprono decisamente al blues.
Il jazz come stato dell’anima. Per lei è davvero così?
Tocca corde personali ed emozioni altrimenti inarrivabili: il mio dire, non c’è dubbio, è in jazz. Ma non penso che tutto si possa “ridurre” a jazz…Devi sentirlo, sennò è freddo. Ad ogni modo, come dico agli amici, che in un primo tempo si scandalizzavano: non chiamatemi jazzista… la musica non va chiusa in una gabbia, tanto più il jazz, che è libertà.
Il jazz lo insegna pure…
Ho una cattedra al Conservatorio di Frosinone, mentre in quello di Parma per anni ne ho avuta una di musica pop. Un’esperienza formidabile, come sono state straordinarie tutte le esperienze di insegnamento. Al Conservatorio, l’elemento che rende speciale l’avventura è la sua non ripetitività, la possibilità di intraprendere un percorso che si evolve e aggiunge sempre cose nuove. Lei non ha avuto paura, sin dall’inizio degli anni Duemila, di contaminarsi con la realtà dei talent, oggi dominante come modalità di scouting musicale.
Cosa le trasmette il ruolo di “vocal coach” a X Factor?
È un lavoro, che affronto con professionalità, come è stato ad inizio carriera per quello da corista,
con cui mi sono fatta le ossa. Ciò detto, aggiungo che, ci piaccia o meno, i talent sono una
scommessa sul futuro. Siccome non amo stare in un angolo e sospirare cose tipo “ai miei tempi sì
che la musica era grande…”, lo faccio anche con senso di responsabilità, perché per molti ragazzi
è un’occasione unica e irripetibile.