Alla base del film di Ridley Scott, Exodus – Dei e re, c’è (come potrebbe essere altrimenti?) il racconto dell’Esodo, peraltro affrontato dal cineasta inglese con assoluta libertà, soprattutto nelle premesse, per piegare la storia alle proprie esigenze narrative.Ecco allora che Mosè non solo è un uomo perfettamente integrato nella società egiziana governata con saggezza dal faraone Seti, ma è addirittura un generale, eroe di guerra, talmente valoroso da aver salvato in battaglia, a rischio della propria vita, la pelle del cugino Ramses, figlio di Seti e successore designato al trono. Principe ereditario che è, per parte sua, talmente vanesio e impulsivo da destare perplessità nel genitore, che guarda invece con malcelato affetto oltre che con un velo di invidia alle qualità del cadetto Mosè. Poi le cose precipitano: cominciano a girare voci sulle origini di Mosè (si chiedono gli egizi: che sia un ebreo? Si dicono gli anziani del popolo di Dio: è uno di noi!), Seti muore, Ramses è indotto dalla madre a esiliare il cugino. Da qui in poi la storia rientra, almeno a grandi linee, nei confini tracciati dall’odissea biblica, con l’esilio di Mosè, la sua vita bucolica presso una tribù nomade in cui trova moglie e riparo, il ritorno ai luoghi natii, le piaghe d’Egitto, la fuga degli Ebrei da lui capitanata, la traversata del Mar Rosso.
Nulla di nuovo sotto il sole (per restare nell’ambito del Vecchio Testamento, ramo Qoelet), anche perché l’epopea mosaica è una delle più narrate, analizzate, manipolate non solo dal cinema e dalla letteratura ma prima ancora dai racconti orali tramandati di generazione in generazione, davanti ai focolari, nei fienili, nei bivacchi sotto le stelle, e ripresi con passione da scrittori di fama o magari interpolati da oscuri miniaturisti ovvero presentati pedissequamente in qualche aula di catechismo. Grandi passi in avanti non sembra averne fatti nemmeno il cinema, se confrontiamo Exodus con I dieci comandamenti, il kolossal girato nel 1955 dal cattolicissimo Cecil B. De Mille e interpretato da Charlton Heston, Yul Brynner, Anne Baxter, John Carradine, John Derek. Pur nel contesto decisamente finto degli studios (con le riprese in esterno che pagano un prezzo pesante agli occhi dello spettatore contemporaneo, abituato ai reportage stile National Geographic o anche soltanto alla verosimiglianza delle ricostruzioni dell’epoca digitale), in termini di spettacolo, ritmo, effetti e interpretazioni quel film non ha nulla da invidiare al suo epigono moderno. E in termini di pathos e coinvolgimento lo batte certamente di parecchie lunghezze. D’altronde, non a caso, De Mille, proprio per la sua propensione allo spettacolo magniloquente e roboante, è uno degli autori della Hollywood dei tempi d’oro più saccheggiati (consapevolmente o meno) dai registi di spot pubblicitari. Perfino John Ford (a proposito: è forse lui il più grande tra i grandi del cinema classico americano?), sebbene esprimesse in una riunione dell’Associazione dei Registi Americani tutto il suo disprezzo sul piano umano per il celebre collega (come ci ricorda Peter Bogdanovich in un celebre saggio) doveva riconoscere come: “non ci sia nessuno che sappia meglio di Cecil B. De Mille ciò che il pubblico americano vuole – e certamente lui sa come darglielo”.
Ma se non è sul piano del puro divertimento che dobbiamo approcciarci al film, e attesa la sua manifesta inattendibilità storica, oltre che il tradimento costante della fonte vetero-testamentaria, quali sono – se ci sono – le sue qualità? Risposta difficile, perché ti aspetti che Ridley Scott riservi sempre una sorpresa, che ti garantisca almeno un sussulto, che celi qualcosa di ulteriore rispetto a ciò che percepisci a livello epidermico. E quindi non ti rassegni facilmente a quella che invece è la più evidente delle verità: che il suo cinema ha ormai dato il meglio e che Exodus non è che la ennesima tappa di un declino inesorabile. D’altra parte, a prendere in esame solo la contrapposizione tra Mosè e Ramses messa in scena nel film, forzando oltremodo la narrazione biblica (in cui Mosè lotta con se stesso o al massimo cerca una sfida impossibile con la divinità), con l’aggiunta di un ruolo da arbitro per il genitore Seti (rispettivamente putativo e naturale) non abbiamo la riproduzione esatta dello schema narrativo de Il gladiatore, che Scott girò nel 2000?
Ora, di registi che rifanno sempre lo stesso film, o di scrittori che scrivono sempre lo stesso libro, sono piene la storia del cinema e quella della letteratura. E non sempre questa ripetizione appare negativa o infeconda. A ben guardare, nella stessa filmografia di Ridley Scott, lo scontro tra due antagonisti che hanno in comune più di quanto non vorrebbero, a partire dal folgorante esordio con I duellanti (1977) ispirato dalla magnifica novella di Joseph Conrad, è una costante. Ma qui, forse si esagera.
Torna alla mente, inarrestabile, quanto scrivevano Gianni Canova e Alberto Pezzotta sul n.80 di Duel. Era il maggio 2000, e Il gladiatore irrompeva sul mercato italiano con la furia di un uragano che avrebbe aperto squarci nel paludato mondo distributivo nostrano, abituato a ferie lunghe, e quindi sconvolto da quei film che, dopo Pasqua, allungano la stagione. Ma anche opera che apriva, e non poteva essere diversamente, a una lunga sequela di repliche, imitazioni, derivati, all’insegna della risurrezione del peplum prima, e poi, più genericamente, di un aumento esponenziale delle pellicole in costume. Erano due analisi lucidamente contrapposte, apparentemente inconciliabili, quelle proposte dai due. Anzi, realmente inconciliabili, e giustamente ospitate su una rivista che aveva nel DNA il gusto della disputa, che poi era il condimento della critica militante in un ambito in cui la categoria del politicamente corretto ancora non aveva fatto danni.
Il tempo, salomonicamente, ha reso giustizia ad entrambe. Ecco Canova: “Sarebbe fin troppo facile dire che Il gladiatore narra – ancora una volta – di alieni e replicanti, di androidi e duellanti. Che nella grana luministica delle sue immagini vibrano i fosfeni di Legend e le caligini ferruginose di Alien, che nella sua banda sonora riecheggiano i fendenti metallici di The Duellist o i babelici brusii da fine del mondo di Blade Runner. Tutto questo c’è, senza dubbio, ma passa in secondo piano (in un film che gioca sempre più sui piani sovrapposti) rispetto alla necessità di raccontare prima di tutto la storia di due antagonisti che – come spesso in Scott – sono di fatto l’uno il “doppio” dell’altro: Commodo e Maximus, l’imperatore tiranno e l’ex-generale divenuto gladiatore ribelle. Due destini incrociati, due percorsi chiasmici: uno (Commodo) è lo Spettatore che scende nell’arena e sogna di diventare il divo dello spettacolo di cui è anche produttore, l’altro (Maximus) è l’Attore condannato a essere solo un oggetto scopico passivo, ma che rivendica il diritto a ridiventare soggetto, e a poter rivolgere il proprio sguardo sulle rappresentazioni che contribuisce a realizzare. Mai Ridley Scott aveva portato così a fondo la sua riflessione sulla società dello spettacolo come in questo film. (…) Spettacolo, solo spettacolo: quello che ci attrae nella sua barbarie, quello che ci inchioda come accade nel film agli spettatori dei circenses gladiatori. Forse Il gladiatore è prima di tutto questo: una parabola fantascientifica sull’identità e la mutazione dello spettatore, sul suo bisogno di fruire non del “bello” o del “vero”, ma sempre e solo di un’eccitazione continua che si appaga pienamente solo quando lo spettatore diventa a sua volta attore. Anche a costo di morire nell’arena, come accade a Commodo dopo che ha pugnalato a tradimento il suo primo e unico oggetto di desiderio. Maximus e Commodo si uccidono l’un l’altro: gioco alla pari, a somma zero. Tutti e due, nel film, manipolano statuette di legno: uno le colloca in un modellino miniaturizzato del Colosseo, l’altro le tiene con sé come talismani. L’uno e l’altro sono demiurghi: muovono burattini sulla scena dello spettacolo, e usano lo spettacolo come unico linguaggio in grado di mettere in circolo e redistribuire il potere. Il gladiatore è la microfisica del potere nell’era dello Spettacolo, quando il dominio si nutre prima di tutto di visioni. Tanto che Maximus deve ricorrere al sogno per liberarsi dalla condanna di essere solo oggetto scopico, e per ridiventare soggetto di visione.”
Replicava Pezzotta: “ (….). Probabile che, alla fin fine, abbia fatto affidamento (Ridley Scott) unicamente sulle immagini, lui, ex regista di spot, fratello di Tony Scott, che negli anni Ottanta si è conquistato una nomea a mio avviso del tutto immeritata. Regista di superfici, all’epoca sicuramente al passo con i tempi e anzi investito dello Zeitgeist come pochi, quale eredità ci ha lasciato? E che cosa ha girato di decente, negli anni Novanta? La risposta è una sola: niente. E il suo cinema di patina e solleticamento del nervo ottico, il suo cinema più profumato (e volatile) che tattile, più elusivo che allusivo, oggi mi sembra vecchio e invecchiato male. (…) Gianni Canova mi dice che è inutile e poco interessante scandalizzarsi per gli anacronismi, i casali toscani da Mulino Bianco spacciati per ville romane in Spagna, le scritte latine sbagliate, la cialtroneria che affiora fin dai nomi dei personaggi (perché uno si chiama Maximus e un altro Proximo? Perché per un anglofono ignorante, italiano e latino sono la stessa roba, e la desinenza in –us del latino vale tanto quella in –o che caratterizza l’italiano). A parte il fatto che un Kubrick non sarebbe mica tanto d’accordo, mi sembra solo la riprova che questo è il cinema dell’arroganza del capitale, dei produttori ignoranti, dei registi mercenari, di coloro che disprezzano il pubblico perché qualunque schifezza gli dai se la trangugia lo stesso. Così come mi sembra offensivo il finalino con il nero di Amistad che saluta il prode amico bianco morto, e parte un’ allegra musichetta in sottofondo. Roba che neanche una fiction di Raiuno. Questo è cinema morto, finto cinema, tanto quanto Anna and the King, Entrapment, Gioco a due, La mummia, Jakob il bugiardo, Wild Wild West (…). Visti tutti, cari miei. E’ il cinema sintomatico del vuoto che ci circonda, della nostra condizione postmoderna? E Michael Mann, allora? Jarmusch? David Linch? Man On the Moon? Scorsese? Il cinema è di nuovo diviso in due. La sola idea che si possa prendere sul serio un film come Gladiator mi butta nello sconforto. Non ci sto. Allora mi ritiro in campagna, non scrivo più su ‘Duel’, d’ora in poi vedo solo film di Jean Renoir e Radley Metzger”.
A distanza di quindici anni, possiamo sostenere che avevano ragione entrambi, Gianni Canova e Alberto Pezzotta. Aveva ragione Gianni Canova, perché davvero la riflessione sul ruolo dello spettatore – e quindi l’esistenza di un piano di lettura che andasse ben oltre l’epidermide ludica e grandiosa del film – era prevista, pensata e portata al suo massimo livello. Ma Il gladiatore è stato anche, senza dubbio (basta vedere la produzione successiva – in cui si salvano al massimo Black Hawk Down e American Gangster – tutta tesa a reiterare, senza riuscirci, l’apoteosi del guerriero, tutta volta a ricostruire l’allegoria dello spettatore che aspira a qualcosa di più del suo ruolo di oggetto scopico), il suo canto del cigno. E quindi aveva certamente ragione pure Alberto Pezzotta, che quella deriva aveva previsto, anche se, con eccesso di lungimiranza, l’aveva perfino anticipata, al punto da sottoporre a revisione totale e quindi ridimensionare l’intera produzione di Ridley Scott, fino a negare quell’ultimo acuto, forse perché insieme alla vetta raggiunta già racchiudeva l’abisso che ne sarebbe seguito.
Rimangono in Exodus – tappa di una via crucis che è passata attraverso prove incolori come Hannibal, Il genio della truffa, The Counselor o lavoretti niente più che carini come Un’ottima annata e Robin Hood – pochissime tracce di un passato glorioso. La magia di Scott, nelle sue prove più riuscite, era duratura, capace di insediarsi nell’immaginario privato e in quello collettivo e lasciarvi impronte che non svaniscono: qui è già scomparsa prima che finisca il film.
Film che non ha dalla sua nemmeno le credenziali che ne avevano preceduto il massiccio lancio pubblicitario: in primis la delicatezza nell’affrontare un tema religioso comune alle tre religioni monoteistiche, ma con differenti sfumature interpretative; in seconda battuta, una programmatica laicità di fondo. Circa la ecumenicità del prodotto e le sue potenzialità irenistiche, può essere che attenuando gli elementi di tensione si incida favorevolmente sui processi di pace. Ma consentitemi di dubitare. Ammesso invece che l’allontanamento dell’aspetto religioso sia un pregio (ma non concesso: stiamo comunque parlando di un soggetto biblico, naturalmente connesso con una ben precisa dimensione spirituale), il Mosè tremebondo e ascetico di Cristian Bale – che evoca per associazione l’inquietudine del “cavaliere oscuro” su cui ha costruito una carriera peraltro memorabile – solo in apparenza lascia da parte il divino. Meglio: vorrebbe, ma non ci riesce. Il regista fa credere che la “relazione” che Mosè instaura con il Dio degli Ebrei sia conseguenza di un banale colpo in testa. Ma poi non riesce a mantenere la rotta, quando la spiegazione logica alle piaghe d’Egitto perde consistenza per finire strozzata come la testa dello scienziato egizio che la sostiene senza saperla dimostrare. E deve utilizzare l’abborracciato espediente di un dio bambino e capriccioso per far risaltare, per contrasto, la gandhiana ma perdente, inefficace resistenza del razionale Mosè, lui pure incapace di proporre – esattamente come il regista – una strategia d’uscita che non sia il ritorno alla dimensione metafisica.
Sulla scia di questo, nota di biasimo finale per l’opinabile scelta del titolo. Alle prese con il problema di smarcarsi dall’omonima epopea sionista di Otto Preminger, quell’Exodus che nel 1960 intenerì milioni di spettatori e guadagnò un Oscar, punta tutto, per distinguersi e qualificarsi, sul sottotitolo “dei e re”: peccato che di dei Ridley Scott non ne voglia sapere, mentre i re hanno abdicato, oppure non hanno né il portamento né il carisma e nemmeno lo spazio per essere protagonisti. Vero anche che c’è di peggio in giro, eccome…Allora, per dirla con Omero: “Sopporta, o cuore, ben altro soffristi…”.