Potrebbe anche essere il suo film più politico sulla Turchia contemporanea, L’albero dei frutti selvatici (in Concorso a Cannes 71), o almeno lo è nella misura in cui sappiamo bene che Nuri Bilge Ceylan preferisce essere un poeta, piuttosto che un intellettuale (scomodo). Fatto sta che questo suo nuovo film (188 minuti, arrivati in extremis nel Concorso di Cannes 71) insiste implicitamente su temi che hanno a che fare con la chiusura nei confini del proprio mondo e l’apertura alla vita, con l’ambizione a raccontare la realtà e la spinta a mascherarla o ignorarla, con l’istinto alla visione poetica e la tentazione della sottomissione al destino, con le responsabilità dei padri ma soprattutto con quelle dei figli… E del resto dice esplicitamente di poliziotti che se la prendono coi manifestanti e soldati spediti a controllare i confini, di imam progressisti e integralisti, di funzionari corrotti e politici di facciata… Ma poi tutto rimane sottotraccia, ché Ceylan ha ispirazioni e aspirazioni inconfutabilmente diverse, tende a una visione umanistica della realtà sociale e in questa sfera colloca, anche stavolta, il dramma intimo del suo protagonista. Che è un neolaureato con ambizioni di scrittore e un possibile, più realistico futuro da insegnante: la passione per la letteratura Sinan probabilmente l’ha presa da quel padre professore, che ora tanto disprezza e che gli fa vergogna per il suo modo di essere lieve, spensierato, incapace di mettersi in posa dinnanzi alla società.
Sinan non se ne rende conto, ma quell’uomo è a suo modo un poeta, che ha guardato la vita in faccia scommettendo sul sogno di una vittoria. Peccato che la scommessa non fosse solo ideale, ma si sia incancrenita nel vizio del gioco che gli ha fatto perdere la casa di famiglia… Ora l’uomo sorride di fronte ai sospetti e alle accuse del figlio e cerca il suo equilibrio nella vita ai margini e nella casa di campagna del padre, dove c’è il suo cane da caccia, che ama più di ogni altra cosa (è l’unico che lo guarda senza giudicarlo, dice), e un pozzo che sta testardamente scavando, convinto di poter trovare l’acqua dove tutti gli dicono non essercene. E’ nello specchio di quest’uomo che Ceylan riflette il protagonista del suo film: il giovane Sinan è un grumo di tristezza inespressa, aspettative incupite, voglia di andare paralizzata, sensibilità annichilita, che proprio non riesce a guardare in faccia quel padre che sorride come un bambino a ogni rimprovero e che sa amarlo nonostante l’implicito disprezzo che riceve in cambio. Sinan attende che la vita gli dia qualcosa senza voler mettere in gioco nulla di più di quel libro che ha scritto e in cui tanto crede, trascrizione della sua intima visione della vita e della gente in quel posto, da cui spera di ottenere quella fama capace di portarlo via, di consegnarlo a un futuro da vivere altrove.
L’albero dei frutti selvatici si costruisce su questo dialogo a distanza tra due generazioni che incarnano chiaramente attese e dimensioni differenti della realtà turca. Se la struttura del film è marcatamente dialogica, ardua nel confronto insistito tra posizioni, punti di vista, storie, va detto che Ceylan è fortemente consapevole di una scelta che prevalentemente mortifica l’istinto visivo e lirico del suo cinema, per favorire un versante più didascalico. Il risultato è un film indubbiamente meno affascinante ma forse anche più importante, un’opera in cui tutto è costruito come una dispersione nel controcampo ideale tra posizioni differenti. E lo spettro che sembra significativamente aleggiare in tutto il film è quello del grande Yilmaz Guney, nume ideale e ideologico della cultura turca, alla cui immagine si rifà, nell’aspetto come nella resa iconografica, il personaggio del padre. Il confronto con questa figura di riferimento del cinema turco, tanto noto come autore politicamente impegnato e vessato dalle autorità, quanto ancora oggi incredibilmente popolare, è il gancio attraverso il quale Ceylan racconta sogni traditi, attese impossibili, visioni differenti e possibilità negate del suo paese, in un film che si traduce in un silenzioso ma inconfutabile atto d’accusa contro lo stato delle cose in Turchia. Sinan con tutta la sua rabbia è un figlio accecato dalla paura, dalla disperazione e racconta di una generazione che non sa più dialogare con i padri, finita in fondo a un pozzo secco, in cerca di un’acqua che forse non c’è.