Gianni Mura, parlando di Massimo Bubola, lo ha inquadrato così: “Per me, quando uno ha messo mano a Fiume Sand Creek e Don Raffaè (in panchina: Il cielo d’Irlanda) è in regola con il mondo”. Ma se ti chiami Massimo Bubola, veronese del 1954, e hai scritto già nel 1977 una canzone dolorosa e bellissima come Andrea (contenuta nell’album Rimini di De André, che è per intero firmato anche da Bubola stesso, così come il successivo Fabrizio De André, universalmente noto come “L’indiano”) che parla di Grande Guerra, e se poi a questa hai dedicato due dischi (Quel lungo treno del 2005 e Il testamento del capitano, 2014), oltre che in regola con il mondo in generale hai pure le credenziali specifiche per cantare di quella guerra quando vuoi, senza correre il rischio che qualcuno ti dia dell’opportunista, nemmeno in questa fase celebrativa del Centenario in cui molti saltano sul carro del ricordo attraverso rassegne, mostre, pubblicazioni, incontri.
Alle canzoni della Grande Guerra – che lui definisce: “Un conflitto che nacque senza basi ideologiche…il colpo di coda di un impero che crollava su se stesso. E che generò illusioni: nel 1918 eravamo convinti di aver cambiato l’Europa e invece, prostrati ed esposti alle dittature, siamo stati cambiati noi” – Bubola si è affezionato da bambino, quando le abbozzava il nonno (che della guerra combattuta non voleva parlare, con quel pudore tipico di tutta la sua generazione) e le cantava per intero il padre insegnante, mentre pedalava con Massimo sul sellino verso i luoghi in cui si spendeva per l’alfabetizzazione dei contadini. Da adulto le ha fatte sue, colorandole di sonorità folk e rock, quelle che sente più adatte a sé, ma che ritiene perfette anche per accompagnare parole nate al fronte, sovente ispirate alle melodie dei grandi compositori dell’Impero e musicate in maniera asciutta con strumenti facilmente trasportabili quali chitarre, armoniche a bocca e fisarmoniche. Accanto ai brani della tradizione non ha mai smesso di crearne di nuovi, epici ed evocativi, e così è anche ora che alla Grande Guerra tornano tutti, forse prima di archiviarla definitivamente negli armadi della Storia.
“Dal Caporetto al Piave”, uscito in edicola nei giorni scorsi, è un’antologia che si compone di dodici canzoni: dieci appartenenti al repertorio classico della Grande Guerra (Il testamento del capitano, Bombardano Cortina, Era una notte che pioveva, La tradotta, Ta pum, Sul ponte di Perati, Ponte de Priula, Monte Canino, Sui Monti Scarpazi, Adio Ronco) e già incise in precedenza con la Eccher Band; una, la title track, da lui composta e inserita nel lavoro dell’anno scorso; infine Andremo via, brano struggente e di grande potenza immaginifica, che racchiude nello spazio di poche righe il senso di vuoto, sconfitta e impotenza lasciato dal conflitto, che nemmeno la retorica vittoriosa del dopoguerra ha saputo cancellare dalla memoria collettiva.
Massimo ci ha consentito di pubblicarlo, per cui ve lo proponiamo integralmente. Quanto ad ascoltarlo, due possibilità: o cercare in edicola l’antologia, o ascoltare Bubola e la Eccher Band in una delle tappe del Rosso su Verde Tour (Canzoni e parole di Guerra e d’Amore) che l’artista sta portando in giro per l’Italia.
ANDREMO VIA
(testo e musica di M. Bubola – S. Ferro – 2015)
In un mattino senza sole, andremo via
Senza avere mai viaggiato, andremo via
Seguiremo le rotaie di pianure misteriose
Senza un posto dove andare, andremo via
Senza labbra da baciare, andremo via
Senza guance d’asciugare, andremo via.
Senza piangere o pregare, andremo via
Senza fiori, né fanfare, andremo via
Saliremo quelle cime, quelle nuvole assassine
Come agnelli sull’altare, andremo via
Senza un bimbo da cullare, andremo via
Senza il grano da tagliare, andremo via
Andremo sopra un cielo di fumo
Andremo via inseguendo il profumo
Dentro il vortice bianco di quel walzer viennese
La tua bocca vicina, le tue braccia distese
Senza niente da fumare, andremo via
Senza grappa da ubriacare, andremo via
In trincee e in ospedali senza preti o generali
Senza nastri, né rosari, andremo via
Senza un letto da scaldare, andremo via
Senza fare più l’amore, andremo via
Andremo sopra un cielo di fumo
Andremo via inseguendo il profumo
Dentro il vortice bianco di quel walzer viennese
La tua bocca vicina, le tue braccia distese
Senza più voglia di battaglie, andremo via
Senza premi, né medaglie, andremo via
Senza un crucco da scannare, né un sergente a bestemmiare
Senza meli da piantare andremo via.
Con un tuono senza voce andremo via
Senza un nome sulla croce andremo via.