“Sono un americano nato in Italia, educato in Francia, che parla inglese, sembra un tedesco e dipinge come uno spagnolo”.
(John Singer Sargent)
Se anche ricordate la sua prima esposizione italiana contemporanea (Sargent e l’Italia a Palazzo dei Diamanti di Ferrara tra il 2002 e il 2003, che colmò una lacuna incredibile considerando che Sargent nacque in Italia nel 1856), e pensate che essa possa fornirvi un’impressione definitiva sulla base del già visto, un’idea insomma dell’opera di quello che, alla sua morte (avvenuta nel 1925), era acclamato come il più grande ritrattista della sua generazione, ebbene, non fermatevi al primo approccio, non fidatevi del vissuto, non pensate di averlo classificato per sempre. Perché vi impantanereste, oltre che in una improbabile riflessione sulla valenza del ritratto, ovvero sulla grandezza forse inarrivabile di Rubens o di Rembrandt o di Goya, di Frans Hals o di Velazquez o magari addirittura sul valore della scuola inglese del Settecento, che poi, a ben guardare, era cresciuta con gli innesti di maestri che fuggivano dall’Europa continentale, dalla idiosincrasia di luteranesimo e calvinismo per la rappresentazione figurata dell’uomo. Oppure, ancora, pensereste a come la fotografia, seguita deal cinema, abbia irrimediabilmente sottoposto a revisione critica tutto ciò che la pittura in millenni di approccio alla ritrattistica aveva prodotto. Con risultati non sempre soddisfacenti.
Ad ogni modo, sgombrata la mente da pregiudizi, preconcetti, incrostazioni visive e visioni incrostate, l’allestimento londinese, curato da Barbara Dayer Gallati per la National Portrait Gallery (fino al 25 maggio), vi colpirà come una folgorazione. E comincerete a chiedervi come è possibile che un pittore di tale grandezza, forse l’ultimo ritrattista di valore assoluto prima del declino definitivo di questa espressione della pittura, riconosciuto a livello internazionale come uno dei migliori artisti della sua epoca, non sia assolutamente conosciuto nel paese che gli ha dato (casualmente) i natali. Nato a Firenze da genitori di Philadelphia trasferitisi nel nostro paese, John Singer Sargent, di passaporto americano, in movimento continuo tra paesi dell’Europa (con predilezione assoluta per Italia e Inghilterra) e la madrepatria, non è stato (soltanto) un ritrattista, bensì un artista capace di indirizzarsi a soggetti e tecniche tra le più varie. L’esposizione londinese, di ampiezza discreta e di grande bellezza, mette nel mirino un periodo della vita di Sargent che va dagli ultimi venti anni del diciannovesimo secolo ai primi dieci del ventesimo, e un genere, cioè i ritratti di colleghi artisti e di amici, categorie che in buona parte coincidevano.
Dipinti che sono “inquadrature” che sanno dire quasi quanto un’indagine giornalistica o una biografia. Vite cristallizzate in un attimo che non fugge, catturato da Sargent e fatto suo: il maestro francese Carolus Duran, naturalmente elegante ed ieratico; il glamour impagabile del medico Samuel-Jean Pozzi, viveur parigino e amante di Sarah Bernhardt; la timidezza pudica ma coraggiosa di Vernon Lee, donna di lettere, pace e battaglie femministe; il fascino maturo di una signora di mondo come Madame Allouard-Jouan o quello fieramente sfrontato della ballerina andalusa Carmen Dauset, nota come “Carmencita”; la posa sicura dell’uomo arrivato che assume il grande Henry James o i tratti inquieti e tenebrosi usati per descrivere un giovane William Butler Yeats, non ancora carico della gloria delle sue liriche. Senza dimenticare gli autoritratti prodotti nel tempo che, come sovente accade ai migliori, lasciano una testimonianza preziosa dell’evoluzione fisica e psicologica dell’autore. Ma, se devo scegliere tra i quasi settanta dipinti che compongono la mostra, non ho dubbi: sono i due che ritraggono Robert Louis Stevenson, soprattutto quello di Stevenson con la moglie. Opere in apparenza minori, che nonhanno la cura nel tratto e il gusto del dettaglio che evidenziano altri lavori dello stesso Sargent. Ma sono di una modernità sorprendente: composto, sereno, quasi apatico nel ritratto in solitario (che è successivo, e risale al 1887); enigmatico e nervoso in quello di coppia (datato 1884), con lo scrittore, alto, allampanato e di una magrezza sconcertante, che sembra colto di sorpresa in mezzo alla stanza, mentre la moglie-mamma (Fanny Vandegrift aveva 10 anni più del marito in un’epoca in cui le donne invecchiavano a velocità doppia rispetto agli uomini) è relegata a margine della tela, in uno strano atteggiamento e con vesti orientali.
Nel romanzo Sotto un immenso cielo di stelle, in cui racconta la vita degli Stevenson con la prospettiva di Fanny, la scrittrice americana Nancy Horan descrive così la genesi di un’opera precedente, che la moglie gettò nella spazzatura: “ Sargent aveva dipinto un ritratto di Louis, e il risultato finale era stato alquanto bizzarro: ne aveva fatto una specie di dandy tutt’ossa, con una strana grazia femminea”. E poi quella del ritratto famigliare: “Sargent aveva colto con efficacia il viso giovanile di Louis, lo sguardo penetrante dei suoi occhi color nocciola, la sua pensierosa intensità. Sulla tela come nella vita, Louis trasudava energia intellettuale. Quanto alla propria immagine, Fanny la trovò profondamente inquietante. Sargent l’aveva descritta come una specie di odalisca, con gli anelli alle dita dei piedi e gli occhi cerchiati di bistro. Non le somigliava affatto. Ma la cosa più fastidiosa era l’irrilevanza della sua figura in confronto a quella di Louis. Era tagliata a metà, confinata al margine della tela”.
Quest’ultimo ritratto (appartenente al museo di Bentonville, in Arkansas) è davvero straordinario, con Stevenson che sembra un alienato che cammina dentro una cella, mentre la moglie è nulla più che una macchia di colori. Il pittore coglie l’essenziale: lo scrittore inadeguato a tutto ciò che non era frutto della sua penna; la donna presenza superflua agli occhi di chi dipingeva, e senza nemmeno la chiave per entrare nelle fantasie del marito. Potenza del ritratto, sublime intuizione di John Singer Sargent, un autore da riscoprire.Più in generale, Portraits of Artists and Friends è un’esposizione da non perdere, che da sola vale un viaggio a Londra.