Se cerchi un punto di fuga prospettica nei film di Todd Haynes, non lo trovi mai. Carol, applauditissimo in Concorso a Cannes 68, ne è la conferma. Già sulla carta il film si propone come il controcampo al femminile di Lontano dal paradiso: l’America anni ’50 tra paranoie politiche, mito della perfezione, ossessione dell’ordine, pose da alta società borghesizzata; l’impossibilità di essere diversi inscritta nel culto della famiglia, della casa, dei figli… Qui alla base c’è uno dei primi romanzi di Patricia Highsmith, The Price of Salt, pubblicato in principio con lo pseudonimo Claire Morgan, mentre sullo schermo c’è l’allure straordinaria di Cate Blanchett incorniciata nella fotografia stile technicolor di Edward Lachman, DOP abituale di Haynes. La costanza dello sguardo del regista rifrange del resto l’immobilismo della società che descrive: questione di pose plastiche, di gesti incastonati in uno scenario scolpito nella gloria dei tempi.
Tutto toglie il respiro, in questa America neoclassica rappresentata da Haynes, come fossimo in uno scenario inverso rispetto al fondativo mondo asettico di Safe… L’operazione sembra chiaramente mirata a invertire la prospettiva: il punto di vista non è certo quello della Carol del titolo, fascinosa donna d’alto bordo, sposa infelice di un uomo d’affari che pretende ovviamente di possederla come un oggetto sociale, prigioniera dell’amore per una figlioletta usata dal marito come ricatto per non concederle il divorzio… Il tutto si focalizza in realtà nello sguardo di Therese (interpretata da una bellissima e brava Rooney Mara, che vezzeggia alla Audrey Hepburn), giovane commessa di un grande magazzino di giocattoli, poco più di una ragazza che la vita (un pretendente, il lavoro…) sta già cercando di incastrare e che resta folgorata dal fascino di Carol, lasciandosi sedurre in una storia che ovviamente coinvolgerà un po’ tutti nel segno del dramma sociale: felicità inattesa, scoperta di sé, impedimenti esterni, segretezza e sfrontatezza, libertà occultata, ricatti, vergogna, messa all’indice… Lo schema sociale si riproduce nello schema narrativo, il calvario ben noto della differenza vissuta negli anni in cui veniva vista come diversità, devianza, male e malattia. Il film è pura materia di messa in scena, esercizio stilistico puro e impassibile, ovviamente toccante per sensibilità immediate: ma non è tanto questo il problema, in fondo la materia è quella del melodramma e non c’è da stupirsi né da recriminare. Il fatto è che Carol rischia di soggiacere supinamente alla scultorea raffigurazione che mette in scena, duplicando nello stile e nella ricerca filmica quella vanitosa sequela di pose false in cui si rispecchiava l’ordine costituito dell’America anni ’50. Haynes non offre punti di fuga, non lascia varchi in cui insinuarsi per respirare e uscire dallo schema figurativo imposto al film. Non bastano i cromatismi ipnotici, il gioco sulle trasparenze di vetrine, finestre domestiche, finestrini d’auto: Carol incornicia tutto e non lascia margini da esplorare. Esattamente come l’interpretazione della Blanchett, che il manuale del buon critico ci consiglierebbe di definire “magistrale”…