Paul Diallo, un insegnante francese di Storia, rientra da una vacanza con la famiglia e si ritrova la casa occupata dalla famiglia della babysitter del figlio, a cui l’aveva prestata perché la custodisse in sua assenza. Quando prova a riprendersi l’abitazione per vie legali, Paul si scontra con la legge che non gli permette di riavere la sua proprietà a causa di un’improprietà del contratto che regola l’accordo fra le due famiglie. Giudici e avvocati rimandano continuamente il processo e la famiglia Diallo si ritrova costretta a dormire in camper nel campeggio di Mickey, un vecchio amico di Chloè, la moglie di Paul. La frustrazione della coppia cresce, alimentata dagli alunni di Paul che ne evidenziano suo malgrado lo status di nero imborghesito e sottomesso alle ingiustizie di una società che gli nega quel che gli spetta, e si rifiuta di prenderselo con altri mezzi. Mickey alimenta la frustrazione di Paul, prendendolo sotto la sua ala e manipolandolo a colpi di festini a base di sesso, alcol e droga, e di lunghe chiacchierate in cui lo convince di essere stato addomesticato e di avere perso la ferocia che dovrebbe muovere un uomo che si riprende con ciò che gli è stato tolto anche con la violenza, se serve. La tensione crea una frattura profonda nella famiglia Diallo, un fuoco su cui Mickey soffia fino a far esplodere la situazione in un parossismo di violenza.
Il titolo italiano del film è completamente fuori fuoco e manca completamente il punto rispetto al pur generico titolo originale francese, Furie, di un film che sembra in qualche modo tracciare una linea ideale tra Arancia Meccanica, Cane di paglia e la serie The Purge – La notte del giudizio con worst case scenario che mette alla prova i confini del concetto molto francese di contratto sociale che, simbolicamente, Paul insegna ai suoi alunni proprio in una delle scene in cui un ragazzo nero come lui critica le sue idee non violente che preservano una società che ha sempre oppresso le minoranze come la sua arrivando a chiamarlo Oreo, come il biscotto, nero fuori ma bianco dentro. Squatter in qualche momento è ridondante e ha forse il difetto di non arrivare mai a portare fino in fondo le questioni che solleva, demandando la reazione più viscerale a personaggi dipinti come discutibili al di là di ogni ragionevole dubbio e mettendo Paul nella posizione di sfogarsi e di passare all’azione solo quando i fatti gli permettono di uscirne tutto sommato pulito.
La questione, tuttavia, resta, strisciante e disturbante. Perché allo spettatore viene naturale mettersi nei panni di Paul ed empatizzare con la sua rabbia repressa, con la frustrazione di restare intrappolato nell’ingranaggio inceppato di un sistema in cui si sforza di credere ma che si rifiuta di funzionare come dovrebbe e lo costringe a subire un’ingiustizia, impossibilitato a far valere i suoi diritti senza sfasciare ciò che vorrebbe a tutti i costi difendere. Squatter riesce bene a trasmettere l’inquietudine tutta kafkiana della macchina burocratica che stritola l’essere umano in una situazione in cui si può soltanto perdere, una situazione in cui la rabbia trova un terreno fertile per crescere forte e distruttiva, facendo riaffiorare l’homo homini lupus dove la funzione regolatrice dello Stato viene a mancare.