«Contro tutte le altre cose è possibile procurarsi una sicurezza, ma a causa della morte, noi, gli uomini, abitiamo una città senza mura».
(Epicuro)
«Tutte le cose sono incerte, solo la morte è certa»
(Agostino)
Stando alla tradizione occidentale tout-court (che potremmo esemplificare con le parole di un antico filosofo pagano come Epicuro e con quelle di uno dei massimi pensatori cristiani come Agostino), la morte è il limite invalicabile e ineludibile della condizione umana. Ma è ancora vero oggi che la morte sia sentita come ineluttabile? E cosa pensa l’uomo del suo limite originario? Quale consapevolezza ha maturato rispetto alla sua condizione creaturale?
Sulle remote isole della Nuova Siberia nell’Oceano Artico, in un’atmosfera quasi primordiale, i cacciatori, spinti dal vantaggioso prezzo dell’oro bianco, cercano le zanne dei mammut estinti. Ma lo scongelamento del permafrost può consegnare loro ben più del prezioso avorio, restituendo una carcassa di mammut sorprendentemente conservata. Tali reperti richiamano l’attenzione di quei ricercatori che, come a seguire una trama fantascientifica, da tempo in varie parti del mondo studiano la possibilità di riportare in vita questo animale, clonandone il DNA. Tuttavia ciò sarebbe solo la prima manifestazione di una prossima grande rivoluzione tecnologica il cui obiettivo è produrre sistemi biologici artificiali completi. Un esercizio? Un gioco da svariati milioni di dollari, dove l’uomo si fa Creatore? Pur provocando con altre questioni, Genesis 2.0 di Christian Frei e Maxim Abugaev vuole condurre lo spettatore a porsi domande sulla propria condizione esistenziale ma è fuori discussione che il centro del film sia il concetto di limite. Defilandosi dal fornire risposte, i due registi stabiliscono una distanza di sicurezza che consente di intrecciare tre vicende convergenti senza scivolare in comode soluzioni: la storia di Peter, avido cacciatore di zanne di mammut, quella di suo fratello Semyon, direttore del Mammut Museum a Yakutsk, in Siberia e quella di Spira, lavoratore instancabile preoccupato della sopravvivenza della propria famiglia. Mescolando scenari apocalittici e futuristici, sovrapponendo leggende, miti e tabù, il documentario attraversa le contraddizioni dell’uomo sia per risaltarne la tensione all’onnipotenza sia per manifestare il suo legame con la natura più avversa.
Già candidato all’Oscar nel 2001 con War Photographer e vincitore della Genziana d’argento al Trento Film Festival nel 2006 con The Giant Buddhas, il regista svizzero con la sua voce accompagna lo spettatore in un mondo nascosto rivelando i palcoscenici dell’iGEM di Boston, l’Harvard Medical School, diretto dal genetista George Church, i laboratori sudcoreani della Sooam Biotech, già responsabili della clonazione di centinaia di cani e la China National Geobank, che ha come obiettivo quello di digitalizzare i genomi di ogni organismo del pianeta. È questo il luogo in cui si ascoltano le parole più efficaci per comprendere il senso dell’intera operazione: «Se lavoriamo insieme possiamo rendere Dio perfetto». Anche se i legami tra le diverse parti mancano di forza e nonostante si generi un ritmo poco incalzante e sincopato, il contesto artico raccontato nelle sue forme più dure e splendidamente sconcertanti delle regioni costiere delle Isole della Nuova Siberia fanno di Genesis 2.0 un’opera che non si riduce a informare lo spettatore. Con disarmante semplicità e potenza, il film spinge lo spettatore ad attraversare con il proprio sguardo l’incessante e straordinariamente creativo rapporto con le terre selvagge. Un luogo estremo invalicabile (?) che ricorda oggi, come ieri, che nel legame con il passato c’è la proiezione al futuro, nella coscienza della dipendenza da altri è inclusa la chiamata alla soggettività, a crearsi. Il limite originario è il luogo dello sviluppo e della libertà possibili. E Genesis 2.0 mette in scena proprio questa prospettiva di libertà.