Da una parte ci sarebbe la voglia di dimenticare, ma per altro verso, diventa cogente la necessità di ricordare. Si dibattono dentro questi due estremi i sentimenti opposti che ci guidano nel (ri)pensare ai mesi di chiusura totale di un Paese intero soggiogato da un invisibile nemico, che, per contrappasso rispetto alle sue dimensioni, ha provocato danni immensi, abbattendosi come un potente uragano sulle vite delle persone e spazzando via speranze, ricordi, progetti, amori, paure e passioni. È stato il 2020 l’anno terribile della pandemia e ora in questo 2021 la nostra comune speranza, planetaria, è che questo non sia un succedaneo di quello, ma solo un anno successivo che possa restituire le consuete quotidianità fatte di speranze, ricordi, progetti, amori, paure e passioni. L’immagine e, quindi, la fotografia e il cinema, con i suoi innumerevoli dispositivi, la rete, con le sue potenzialità sconosciute, sembrano avere sostituito ormai la memoria umana e ci pare non si possa fare a meno di affidare il racconto di un evento se non ad un numero binario che possa essere trasformato in immagine da diffondere, replicare e sostituire alle parole. Il web è pieno di immagini che costituiscono, ognuno, una monade autosufficiente per una narrazione di questi mesi; i nostri accessori telefonici sono stracolmi di immagini nostre o acquisite, che da sole costituiscono il palinsesto di una personale narrazione di queste lunghe 52 e più settimane; i nostri computer conservano centinaia di scatti o decine di filmati che restituiscono gli smarrimenti di una cattività forzata, che ha mutato radicalmente (per sempre?) la funzione biologica delle relazioni.
La pandemia, che ancora incalza le nostre vite, ora (per fortuna) minacciata da una speranzosa ricerca scientifica, è (stato) tutto questo e di colpo abbiamo compreso la debolezza delle nostre strutture sociali, la vulnerabilità dei nostri apparati protettivi; abbiamo imparato che forse non dobbiamo temere ciò che vediamo, ma ciò che non vediamo. Soderbergh nel 2011 lo aveva raccontato con lucidità in Contagion, un film oggi più che citato a ragione, che sembra una cronaca, non troppo lontana da quella realtà che abbiamo sotto gli occhi, con un finale che inchioda, con un montaggio secco ed esplicito, il momento dell’esplodere del non più arrestabile contagio. Un cinema precursore e profetico. Forse, prima o poi si farà un catalogo, invece, di quel cinema che, tra mille problemi, cautele e invenzioni imprevedibili, è nato durante questi mesi. Un cinema costretto a rinchiudersi in sé stesso, che necessariamente, e di nuovo, diventa un racconto intimo anche quando riguarda una collettività, un susseguirsi di immagini che sembrano ripiegarsi per trovare una ragione per la loro stessa esistenza o per restituire una ragione di esistenza al suo autore, come accadeva in Arirang al compianto Kim Ki-duk, che con quel film (guarda caso di nuovo del 2011) ci ha insegnato a interrogarci sulla crisi personale dopo una tragedia. Un cinema terapeutico e lenitivo.
Gabriele Salvatores, è qui alla seconda prova di film collettivo dopo Italy in a Day – Un giorno da italiani del 2013, che con altri intenti misurava la capacità del cinema di narrare la molteplice contemporaneità quasi solidificata in un’unica narrazione che potesse avere il respiro ampio e profondo di quei protagonisti, ma anche di chi vi aveva partecipato senza immagini. Un film che più che raccontare il presente, ha saputo raccontare l’anima del suo autore e il suo desiderio lodevole di comprendere dentro l’immagine impossibile da realizzare, l’immagine mancante di una continuità dell’esistenza come fosse un generoso abbraccio e una ripresa dettagliata a 360 gradi. Con questo stesso animo il regista milanese avrà approcciato il progetto di Fuori era primavera, il cui titolo con il suo indurci ad uno sguardo fuori campo, ci permette, quasi istintivamente, di aggiungere che dentro invece era inverno. Il film, ancora una volta, è nato con il determinante contributo di quanti hanno voluto partecipare a questa accorata coralità del racconto di un dolore che con sfumature e accenti diversi, ha attraversato l’Italia e non soltanto, un dolore non più estinguibile, che abbiamo visto sui volti di chi lo ha provato per ogni ragione possibile, di chi è morto senza conforto, lontano e in un quasi anonimato da milite ignoto, da chi ha dato quella goccia di splendore per lenire la sofferenza e da chi ha compiuto ogni gesto possibile per alleviare un’afflizione. Fuori era primavera – andato in onda su RaiTre e oggi disponibile su Raiplay – con le sfumature necessarie e l’alternarsi di una narrazione sfaccettata, sa cogliere il comune denominatore di un collettivo disagio. Il film collazionato da Salvatores diventa quindi uno dei possibili cataloghi. Altrettanti sarebbe possibile farne, proprio per le ragioni di cui alle premesse, da parte di ognuno di noi con una attenta e coordinata composizione delle immagini in nostro possesso.
È qui che sta forse il problema del film, in quel farsi necessariamente cronaca esterna, pubblica, sia detto con il massimo rispetto di tutte le storie che compongono il mosaico, da quelle più drammatiche e commoventi a quelle più leggere, più resistenti ad una forzata clausura. Forse il vero vulnus è quello di non avere, se non per tratti, lampi, momenti – tra tutti il fil rouge del rider che, sbattuto da una parte all’altra della metropoli, torna ogni sera a casa con il suo magro guadagno e la paura di avere contratto il virus – che però non sono sufficienti a costruire e restituire un segreto sentire di questa dolorosa vicenda. Fuori era primavera resta una variabile di un diario pubblico, una esternazione di un racconto che purtroppo conosciamo, o abbiamo imparato a conoscere. Le sue immagini non ci hanno raccontato nulla di nuovo, nulla che possa arricchire un mosaico già implementato da quell’archivio di immagini e storie divenuta memoria collettiva. Non è il lavoro di scavo personale e drammatico, di intima esposizione che ha fatto Andrea Segre con il suo toccante Molecole, non è neppure il cinema diaristico ancora di salvezza e salvagente per il racconto di una modificazione biologica della vita come accade in Kufid di Elia Moutamid. Con ciò non si vuole sminuire il lavoro del regista milanese che offre, inevitabilmente, momenti di sincera commozione, restando un documento che costituisce fondata testimonianza di quel lungo lockdown. Ma ci è sembrato che siano le storie in sé a possedere questa forza comunicativa e il cinema sia diventato solo mero meccanismo di trasmissione senza neppure il tentativo di attingere alle sue risorse per offrire un valore aggiunto, necessario ingrediente affinché il filo rosso dell’empatia naturale possa scorrere in ogni immagine, in ogni raccordo per trasformare le tessere del mosaico in quell’ininterrotto flusso vitale nel quale si confonde il prima con il dopo, il reale con l’immagine affinché il cinema diventi vita.