Cecilia Mangini è stata sicuramente la decana delle donne registe e altrettanto certamente il suo lavoro artistico sarà oggetto di valutazione in questo tempo senza di lei, piuttosto che con lei vivente. Era pugliese, di Mola di Bari ed era nata nel 1927, era compagna di Lino Del Frà, ha attraversato gli anni duri del fascismo, della guerra, vivendo quelli della contestazione e poi giù fino ai giorni nostri, fino allo scorso gennaio quando ci ha lasciato. Il suo lavoro nel cinema è stato tanto originale, quanto sotterraneo, costruito attorno ad una precisa idea che si manifestava in un’estetica originale, somigliante a quella di De Seta, per intendersi, ma anche distante da quell’approccio che si affidava al montaggio di derivazione formalista. Il suo sguardo femminile l’ha portata ad una libertà espressiva che ci permette di distinguere il suo lavoro rispetto a quello di altri registi. Laddove il cinema documentario era spesso irrigidito dentro le forme precise di regole sintattiche e narrative, nei suoi film si respira, invece, un’aria di libertà, tanto da diventare difficile una categorizzazione dei suoi film non potendo definirli né antropologici, né sociologici, ma neppure narrativi, quanto piuttosto opere di poesia dello sguardo dentro una libertà artistica assoluta. In questo ci ricorda, per l’affinità di intenti, Lorenza Mazzetti che è stata, con la sua breve carriera, l’ispiratrice del Free Cinema.
La Cineteca di Bologna, nell’ambito del Cinema ritrovato, sulla piattaforma di Mymovies, ci permette di verificare le qualità del suo lavoro davvero e colpevolmente scomparso da ogni visibilità cinefila e da ogni commento filologico. Cecilia Mangini ha cominciato a girare i suoi film nel 1958 sotto la guida spirituale, ma anche fattiva di Pier Paolo Pasolini. Ignoti alla città, il suo primo film, è un lavoro strettamente imparentato con l’idea conservativa del poeta friulano, laddove l’istintiva purezza delle forme, qui cinematografiche, in Pasolini legate alle culture più arcaiche, ritrovano spazio e identità dentro le immagini della regista. Nel fluire dei suoi piani sequenza – ai quali si affida maggiormente, piuttosto che a quel montaggio delle attrazioni pratica più frequente nel cinema di Vittorio De Seta – le sue immagini, soprattutto quelle dei suoi primi film, restituiscono il senso di un’epoca e i volti dei ragazzini protagonisti la nascosta e turbolenta vitalità. Il film è una disincantata elegia al mondo solare e desolato delle borgate romane di quegli anni, sul testo di Pasolini le immagini della regista abbandonando la lezione neorealista, ma, assorbiti i principi non più eludibili per ogni cineasta italiano dell’epoca, Cecilia Mangini sembra ricomporre i pezzi invisibili di una metropoli abbagliata dal successo. L’occhio della sua macchina da presa e le parole spietate di Pasolini ricompongono i temi della diseredazione, raccontano la poetica degli esclusi e il loro quotidiano confronto con la sopravvivenza. Forse sono proprio queste immagini, in fondo, a fare da sfondo alle storie che abbiamo ritrovato nelle pagine delle poesie o della prosa di Pasolini e da quei racconti frammentari, ma intensi, dentro i quali sembrano lampeggiare le parole dello scrittore, comprendiamo come questo film sia stato ispirato proprio dalle letture dei romanzi che hanno dato la prima fama al poeta di Casarsa. Ma non si deve pensare che il loro sodalizio artistico, che ha dato luogo a questi magnifici risultati, sia nato da un precedente rapporto, tutt’altro. Con il coraggio di una incoscienza giovanile la giovane Mangini, già fotografa che stava sperimentando il cinema, trovando nell’elenco telefonico il recapito dello scrittore gli chiese di dare un’occhiata a quel suo breve film. Pasolini fu disponibile e per saggiare la sua ulteriore disponibilità basterà ascoltare le dichiarazioni della regista nell’intervista che precede la visione dei suoi film.
Da queste stesse riflessioni prende le mosse anche il successivo La canta delle marane, del 1962, una specie di seconda parte del primo film. È sempre il testo di Pasolini ad accompagnare le immagini che si strutturano in quella particolare estetica eclettica, ma sempre originale, che rimette in gioco i temi elegiaci della estrema periferia, ma anche la marginalità sociale confinante con la delinquenza e la solitudine. Nelle marane, surrogato del mare per i poveri delle periferie romane, si esprimeva quella spietatezza nei confronti della vita che Pasolini, nel testo del precedente Ignoti alla città, considerava come consolatoria per una condizione di esclusione. In questa centralità dell’attenzione della regista verso una marginalità sociale meno consolatoria, rispetto al film precedente, risiede forse una evoluzione della poetica che diventa più attenta a quella esclusione sociale che, introdotta, ma metabolizzata dalla poetica pasoliniana nel primo film qui risultava, invece, quale fondamento di un antagonismo spigoloso e sfrontato. Le sue radici pugliesi sembrarono richiamarla dentro gli ambienti delle sue origini e il film successivo Stendalì, che significa Suonano ancora, girato nel Salento, prende la sua forma corale e lugubre proprio nelle profonde tradizioni dei luoghi. Il film ispirato dalle letture di Ernesto De Martino, riversa proprio in quelle immagini il senso estremo della morte come cesura insanabile tra la vita e l’al di là, a partire dalla morte di Cristo, esperienza dolorosa che si può lenire solo con il lutto, ma soprattutto, secondo gli insegnamenti dell’antropologo napoletano, attraverso il rito, come forma collettiva di dolore condiviso. Cecilia Mangini opera proprio su questi principi e i canti grecanici diventano l’ossessivo rito dell’esortazione del dolore, ma di contro anche canto sfinito, ma liberatorio di quella sofferenza. I fondi neri delle immagini accentuano la cupa ritualità dei gesti e delle parole, i primi piani delle donne piangenti restituiscono, nell’immagine pastosa del technicolor, i riflessi di un’arte popolare, ma efficace a raccontare il lutto e la perdita.
Sono questi suoi primi film a costituire una vera novità nel panorama cinematografico italiano e la loro singolare forma spinge ad un’altra riflessione che riguarda il rapporto della regista con Pasolini. È forse proprio la natura di questi film, nati da una contemplazione che sa vedere il lato poetico del reale, ad affascinarlo che può su quelle immagini costruire i suoi testi altrettanto poetici. Questo processo artistico, così intimamente legato ad una libertà espressiva, si evidenzia ad esempio proprio in Stendalì dove la regista non pretende di rispettare la filologia del canto delle prefiche, ma ci vuole mostrare il rito, delegando a Pasolini un libero intervento artistico sulla parola e sul canto. Il film così sa diventare altro rispetto ad una pedissequa messa in scena del lamento funebre. È un processo artistico di notevole spessore che muove corde intime e sensibili. Quella stessa predilezione già manifestata in La canta delle marane, volta a fare del cinema tema di indagine sociale, anche in ragione dei tempi che stavano mutando con le trasformazioni dei costumi sociali, ma anche politici, diventa la condizione ideale per ragionare sulla condizione femminile. Erano proprio quelle istanze inappagate di una moltitudine di senza lavoro e senza futuro che provenivano dal sud, ma anche dalle povertà, più rare ma non meno gravi del nord del Paese, che diventavano insoddisfazione sociale, che a sua volta si trasformava in terreno fertile per l’impegno politico. In questo quadro la condizione femminile era da leggersi come una emarginazione dentro una esclusione più diffusa e le insoddisfazioni femminili erano ancora più inascoltate, perfino dentro il movimento degli insoddisfatti. Essere donne, del 1964, mette in scena questi disagi, quelli collettivi e come sotto insieme, quelli di genere. Un film secco e teso, costruito con una messa in scena dentro le mura domestiche, in una evoluzione di quella estetica narrativa che al contempo sembra tradire la narrazione classica, quella delle forme consolidate del racconto per immagini. Un cinema che sta in quel guado felice tra documentarismo classico e narrazione di finzione, tra poesia civile e reportage sociale. Cecilia Mangini ha assorbito varie lezioni cinematografiche e il suo cinema si fa struttura solida e più largamente universale. Si vedono tutti e finemente elaborati gli insegnamenti di antropologia e indagine sociale, politici e iconografici. Essere donne è quindi un film fatto di una estrema pulizia e rigore formale, costruito dentro le angosce del lavoro femminile, ma anche dentro una muta rassegnazione inespressa che appartiene ad una concezione della donna come generatrice della consolazione al dolore. Una riflessione davvero sentita, intimamente vera, ineccepibile e tutta ricamata dentro una sofferenza privata che sembra, alla lunga, accomodare le cose, ma anche preparare la rivolta.
Anche Tommaso del 1965 e Brindisi ’65 del 1966 affrontano i temi sociali con lo sguardo però questa volta rivolto al quel Sud così distante da tutto, dove si è barattata la sopravvivenza con lo sviluppo senza progresso nell’accezione pasoliniana. I due film sono quasi consequenziali e se il primo è il ritratto del giovane Tommaso che diventerà operaio dello stabilimento Montecatini perché deve comprarsi una Gilera, entrambi i film, che partono dalla stessa analisi, hanno l’occhio rivolto alla cattiva industrializzazione del sud e alle forti contraddizioni che la stessa ha provocato in quella repressa e sommessa aria di rivolta che covava nei confronti della parte padronale. Ma i tempi non erano ancora maturi per l’accendersi della ribellione che avrebbe mutato i rapporti all’interno delle fabbriche al nord, ma anche al sud, laddove comunque il cammino sarebbe stato più impervio e difficile. Con La briglia sul collo del 1972 Cecilia Mangini muta la direzione dei propri interessi e torna con altre intenzioni nella borgata romana, alla ricerca di una storia di disadattamento, di esclusione, nella quale agiscono le dinamiche dei rifiuti istituzionali nei confronti di una diversità che distingue l’individuo dal gregge. La borgata è quella di San Basilio, la diversità riguarda il piccolo Fabio, che la scuola ha etichettato come disadattato. Il lavoro della regista su un tema così complesso guarda soprattutto alla visione che si ha di questo bambino fuori dagli schemi di ogni doverosa ubbidienza, che manifesta, invece, la propria diversità, che si fa sberleffo e intemperanza soprattutto verso il dovere scolastico. L’indagine coinvolge i genitori, il direttore della scuola elementare di Fabio, la psicologa e la vicina di casa. Nessuno sa entrare nel mondo di Fabio e si sottolineano i suoi eccessi, il rifiuto di ogni regola. Resta irrisolto il tema della diversità che esprime la contestazione dei modelli, il bisogno di nuove regole sociali, resta soprattutto irrisolto il tema di una emarginazione che nonostante il passare degli anni continua a costituire l’isolamento delle borgate della metropoli. Fabio sembra essere vittima proprio di questo isolamento che si accompagna ad una cronica incapacità a ricercare le ragioni profonde di un disagio che nel suo mondo diventa irrisione. Cecilia Mangini ha raccontato molto con il suo lavoro rimasto per troppo tempo oscuro e che solo oggi vede una luce piena. Amava il documentario, il polmone del cinema, la sua placenta e il suo cordone ombelicale, come diceva lei, e la sua filmografia resta testimonianza dell’originalità del suo sguardo e di quello femminile in genere. I suoi racconti ci hanno saputo mostrare la proficua diversità dello sguardo femminile, ci hanno fatto vedere come sia possibile guardare il mondo attraverso la macchina da presa nella piena consapevolezza di quella esclusiva identità femminile.