Una giovane donna, un marito violento dal quale fuggire assieme alle due figlie, una vita da ricostruire tra tante difficoltà, poco lavoro, molta buona volontà e qualche sorriso dei servizi sociali perso tra moduli prestampati e vincoli legali. Una vita per conto suo, Sandra (Clare Dunne) sta facendo di tutto per costruirsela e la riedificazione si basa, nemmeno troppo simbolicamente, sulla costruzione di una casa autofabbricata in legno, che sta portando avanti seguendo le istruzioni online di un blogger e facendosi aiutare da un carpentiere di buon cuore e da un pugno di colleghi e amici di amici, dotati del giusto spirito di solidarietà. Il sospetto di essere in un film poco ispirato di Ken Loach è infondato, siamo solo in La vita che verrà – Herself, il nuovo lavoro di Phyllida Lloyd, che dopo Mamma Mia!, The Iron Lady e un pugno di film televisivi, si è dedicata a questo dramma al femminile di scarso peso specifico, lanciato al Sundance (con score altissimo di Variety su Metacritic, manco a dirlo), ripreso in vari festival (in Italia si è visto a Roma), altrove transitato direttamente online (Amazon Prime) e qui da noi distribuito in sala.
L’argomento è serio anche se non propriamente inesplorato: la difficoltà di ripartire per una donna in fuga dal marito violento è l’emblema di una profonda ferita psicologica che fatica a cicatrizzarsi anche in ragione della scarsa adesione tra gli elementi sociali che la attorniano: servizi, lavoro, famiglie, a volte anche i tribunali dinnanzi ai quali combattere per l’affidamento dei figli. Tutti elementi che La vita che verrà – Herself mette in campo con puntualità, giocandoli sulla storia di Sandra, sulla sua buona volontà, sulla pazienza, sulla disponibilità umana. Peccato che Phyllida Lloyd non sembri avere il polso per trattare questa materia con rigore: il dramma di Sandra lo capisci sin dalle prime inquadrature, in cui la vedi giocare allegra con le due figlie e sai già che di lì a qualche istante irromperà il marito tarato che, allontanate gentilmente le bimbe, scatena su di lei la sua furia vigliacca. Il limite del film, ciò che fa anche un po’ rabbia, è proprio questa maniera di utilizzare con facilità drammaturgica degli schemi che finiscono per banalizzare quello che in realtà è un dramma quotidiano angosciante e terribilmente reale. La regia di Phyllida Lloyd non sembra sentire la verità di questo dramma e di sicuro non la mostra, preferendo la strada di una narrazione puntata sullo spirito solidale, sulla positività degli elementi, sulla rappresentazione di un corpo sociale britannico basato sull’unione che fa la forza. E allora tutto si risolve nella costruzione della casetta in legno che la protagonista porta avanti caparbiamente per risolvere il problema dell’abitazione: i servizi sociali la tengono parcheggiata con le figlie in un hotel in attesa che le venga assegnato un appartamento e lei allora segue la strada del “fai da te”. Il terreno glielo offre una anziana dottoressa amica della madre, presso la quale fa pulizie, la manodopera arriva dal buon cuore della gente. Tutto questo mentre il marito prova a farle gli occhi dolci, ma sotto il nuovo pelo conserva il vecchio vizio. Senza contare che in tribunale la donna rischia di perdere la custodia delle figlie, proprio per aver nascosto ai servizi sociali la costruzione della sua casetta. Insomma, ogni elemento della struttura drammatica risponde alle previsioni, in un film che sa essere tanto accattivante quanto disarmante per la sua fragilità.