“Una miscela di calma, risentimento, ardore, malinconia e curiosità. Con in più la sensazione, netta, che mi toccasse farlo”: nelle parole dell’autore, è quella la molla che ha spinto Edoardo Albinati a scrivere La scuola cattolica, il suo libro Premio Strega 2016. Cosa rimanga di quella miscela nell’omonimo adattamento cinematografico che ne ha tratto ora Stefano Mordini non è facile dirlo: di sicuro la malinconia e la curiosità, visto che il film (presentato fuori concorso a Venezia 78) cavalca il gusto della ricostruzione storica dell’Italia di metà anni ’70 con una certa dovizia scenografica e musicale. La curiosità anche, nel senso che Mordini e i suoi sceneggiatori (Massimo Gaudioso e Luca Infascelli) attingono evidentemente al bisogno di interrogarsi insieme ad Albinati sulle ragioni storiche, sociali e psicologiche che mossero tre ragazzi della Roma bene, appena maturatisi in una prestigiosa scuola cattolica della capitale, a trasformarsi negli aguzzini di due ragazze adescate in un quartiere popolare. Degli altri tre elementi della miscela di Albinati – calma, risentimento e ardore – francamente nel film non c’è traccia, dal momento che La scuola cattolica di Mordini è essenzialmente un film che adotta una forma narrativa ed espressiva pienamente aderente alle convenzioni del cinema italiano attuale: voce narrante che espone ogni ragione psicologica e ogni funzione narrativa, articolazione superficialmente problematica delle dinamiche relazionali tra i personaggi, ambientazione schematizzata sui luoghi comuni, recitazione apparentemente istintiva e in realtà impostata su una veemenza molto controllata, utilizzo pleonastico della musica e soprattutto delle canzoni d’epoca, invadenza di un cast all inclusive che occupa la scena con volti troppo noti per lasciare spazio alla verità dei caratteri…
Ad ogni modo, La scuola cattolica è uno di quei progetti del cinema italiano che risultano utili a definire uno scenario produttivo di livello medio-alto, un po’ come quella borghesia da cui sono emersi i tre assassini del Massacro del Circeo qui rievocato insieme ad Albinati. Lavorando su una struttura narrativa che si muove agilmente lungo la timeline degli eventi, Mordini arriva a mostrarci senza mezzi termini i terribili eventi accaduti nella notte tra il 29 e il 30 settembre del 1975, in cui Rosaria Lopez perse la vita e Donatella Colasanti si salvò solo perché si fece credere morta. Il film non è quello che si dice un thriller, è piuttosto un dramma storico finalizzato a ricostruire lo scenario da cui emerse la terribile violenza che si scatenò su quelle due ragazze per mano di tre giovani cresciuti nell’ipocrisia del valori cattolici di superficie comunicati dalle famiglie e da una scuola, troppo sazi per rispettare davvero la vita. Mordini sfrutta ogni elemento utile a definire questo schema, partendo proprio da una dimensione mimetica rispetto alla apparente solarità di un’Italia che si basava sui valori democristiani e su una ricchezza un po’ sordida, per far emergere via via le ombre sempre più inquietanti che le coscienze dei giovani protagonisti covano. La coralità lascia progressivamente scaturire le figure degli assassini e le loro famiglie, ma l’andamento complessivo sceglie di focalizzare sempre la visione d’insieme, lavorando poi sul dettaglio delle azioni e delle reazioni dei personaggi. In questa struttura, ciò che manca davvero è la plasticità delle psicologie dei protagonisti, la concretezza dei loro vissuti quotidiani: fragilità di una sceneggiatura più attenta ai dialoghi che non allo sviluppo dei singoli personaggi. Per non dire di alcuni spunti che restano inespressi o solo accennati (la setta segreta degli studenti, l’omosessualità nemmeno troppo latente). Si giunge così al punto del massacro un po’ repentinamente, senza avere davvero gli strumenti per comprendere le ragioni profonde ancorché devianti del gesto.