Un film che si disperde nelle ceneri di un artista non può che essere pulviscolo di poesia, da vedere in controluce nella penombra del pensiero. Come tutto il cinema di quest’ultima stagione dei Taviani, Leonora addio (in Concorso a Berlino72, premio FIPRESCI e già in sala) è un gesto vago che nasce da un’idea molto precisa, che ha a che fare con la morte. Da intendersi però non tanto come “fine vita” – non è certo questione malinconica, per due autori che hanno sempre trattato i sentimenti come fatti e i fatti come sentimenti. La morte per loro è un evento, se possibile anche un avvento, qualcosa che interessa come un fatto storico, un avvenimento preciso, concreto, determinato e determinante. Proprio come quel chiodo che il piccolo Bastianeddu dell’ultima novella di Pirandello raccoglie da terra perché è caduto lì, davanti ai suoi piedi, apposta: è accaduto e bisogna trarne le conseguenze, per quanto tragiche esse siano. Paolo Taviani filma da solo, senza più Vittorio, questo suo film, che è scritto proprio sulla parte mancante di sé, forse proprio perché non sembra affatto che quella parte manchi… Il loro è un cinema diviso in uno, lo sappiamo perché lo raccontavano candidamente.
È un po’ come la Leonora del titolo, che è svanita in fase di montaggio (assieme all’aria del Trovatore cantata nella novella pirandelliana), ma c’è comunque, volatilizzata nell’idea di un’unità infranta, attraversata e dispersa come pura energia. Come le ceneri del Maestro, del resto, che attraversano l’Italia da Roma al Caos in un viaggio della speranza che inverte l’itinerario rosselliniano (Paisà, ovviamente, ma ci sono anche Vergano, Zurlini, Lattuada…) e lo ripercorre come una ferita, citandone le ceneri, esponendole come un oggetto reale tanto quanto reale è il repertorio del Luce utilizzato (l’esecuzione del questore di Roma Caruso, per l’eccidio delle Ardeatine, opposto all’esecuzione del parroco raccontata da Vergano in Il sole sorge ancora). Le ceneri pirandelliane infine disunite, un po’ nell’urna e un po’ disperse nel mare, che segnano il tracciato di questo film completamente aperto, senza corpo: non tanto un flusso di pensiero o di coscienza, quanto un pulviscolo di sentimento dell’esistere nel tempo, nella storia, nell’essere. Sarebbe un film sperimentale, se a(i) Taviani interessasse la sperimentazione: preferiscono forzare la forma classica, aprirla, disperderla, seminarla, come tutti gli ultimi film dicono perfettamente.
Fatto sta che Leonora addio è un lungo corteo funebre che segue un morto che non vuol esser seguito: “nessuno m’accompagni… il cocchiere e basta. Bruciatemi”. Il bianco e nero del repertorio e dei film citati bacia il chiaroscuro di tragedia ed ironia di questo film che nega la negazione: segue ciò che chiede di non esser seguito, ricorda chi vuol esser obliato, tiene in vita ciò che pretende d’esser morto… Ecco il percorso delle ceneri che, infine liberate dal Verano nell’Italia liberata dal fascismo, chiuse in una cassa, viaggiano in treno verso la Sicilia assieme ai soldati che ritornano, si perdono, si ritrovano, vengono portate in corteo dagli studenti di Agrigento, infine custodite dopo anni nel monumento scolpito nella roccia di Girgenti e in parte disperse nel mare… Il tutto sospeso da Paolo Taviani in una mitologia inversa, ironizzata ma soprattutto distante dalla lettera delle svariate narrazioni che ne sono state offerte (compresa quella di Camilleri). E infine consegnato ai colori accesi dell’ultimo testo pirandelliano compiuto, Il chiodo delle Novelle per un anno, che, come tutti i racconti del Maestro in cui la Morte è centrale (basti pensare a La camera in attesa), è un autentico flusso di coscienza. Sul quale, però, Paolo Taviani lavora per l’appunto con la flagranza dell’atto, con l’audacia del pensiero semplice che si fa materia epica (La notte di San Lorenzo, ma diversamente anche Padre padrone…). Finisce su una tomba, Leonora addio, ma non è un commiato.