«Non capisco una parola, ma non importa perché presto, capirò tutto». Così esce di scena la piccola Anna, nell’ultima inquadratura del film. Con una speranza, uno sguardo in avanti. L’ennesimo tentativo di reagire al destino e credere alla libertà, alla gratitudine. Nel suo saluto allo spettatore, si ribadisce il suo temperamento, la sua grande forza di volontà, la sua indole a non rassegnarsi e a voltare pagina con responsabilità e sacrificio, un’altra volta. Dopo aver lasciato la Germania per la Svizzera, dopo aver abbandonato anche Parigi, ora la famiglia Kemper è pronta a scrivere un nuovo capitolo della propria storia, in Inghilterra. E qui, infatti, la vera storia di Judith Kerr, l’autrice del romanzo omonimo da cui il film prende spunto, nonché fonte d’ispirazione per la scrittura del personaggio di Anna, trova il suo compimento: dopo la guerra la Kerr studiò arte e iniziò a lavorare come illustratrice di libri per bambini realizzando tra gli altri La tigre che venne per il tè, e la serie di libri sul gatto Mog; negli anni Settanta scrisse la trilogia Out of the Hitler Time composta da When Hitler Stole Pink Rabbit, 1971, Bombs on Aunt Dainty, 1975 e A Small Person Far Away, 1978, in cui racconta la propria storia di esule durante l’ascesa al potere del nazismo nella Germania degli anni Trenta seguendo la prospettiva di una bambina. Figlia del critico teatrale ebreo Alfred Kerr, che aveva più volte attaccato pubblicamente il Partito nazista, Judith Kerr trasferitasi nel Regno Unito nel 1933 trovò finalmente la tanto desiderata casa a Londra dove morì all’età di 95 anni, nel 2019.
La regista Caroline Link offre un ritratto della Kerr, alias Anna Kemper, molto edulcorato, didascalico e illustrativo, privo di ombre e ambiguità. Si comprende fin dalle prime sequenze che l’intenzione del film non è di condurre lo spettatore tra le pieghe di un dramma, bensì di enfatizzare la componente emotivo sentimentale, smontando ogni tensione e spostando lo sguardo sul desiderio di futuro della protagonista, sulla sua determinazione, sull’unione della famiglia, sul bene che vince il male. A tratti forzato e poco equilibrato, questo manicheismo risulta decisivo per accedere al mondo di Anna e comprendere così il suo sguardo, perché è ciò che riflette il modo con cui la Link vuole educare lo spettatore, istruirlo e in alcuni casi quasi convincerlo, ma è anche l’ingranaggio che fa smarrire per strada la forza e la genuinità di alcune soluzioni più poetiche e autentiche. Rilanciando quanto già messo in scena in Nowhere Africa (Oscar nel 2001 come Miglior film straniero), un altro adattamento tratto dal romanzo autobiografico omonimo di Stefanie Zweig, in cui si narrava di una famiglia ebrea tedesca che lasciava la Germania nel 1937, poco prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale, Quando Hitler rubò il coniglio rosa s’interroga sul ruolo dell’arte nella società, sul valore della libertà di parola e di pensiero, sul senso dell’appartenere. Non identificandosi pienamente con lo sguardo della sua brava protagonista, l’attrice Riva Krymalowski che in più di un’inquadratura, per freschezza e tenacia, ricorda la Greta Zuccheri Montanari del film di Giorgio Diritti, L’uomo che verrà, e faticando nel tenere insieme i numerosi frammenti di cui si compone la narrazione, il film perde più di un’occasione per definire la propria forma e consegnare la propria sostanza, restando con la buona intenzione e ambizione di raccontare il presente in cui siamo immersi attraverso la fotografia di un passato che con troppa facilità viene calpestato e dimenticato.