Acque oscure nella Roma dell’horror: Piove, di Paolo Strippoli

Agli antipodi della Roma grottesca e boccheggiante di Siccità c’è quella horror di Piove, in cui pure agisce una varia umanità alle prese con le proprie colpe. A cambiare è la prospettiva, concentrata su meno personaggi, in interni disadorni e affidata a volti meno celebri, come a voler tornare sulla terra, al pari di quelle gocce che cadono pesanti dal cielo. Sulla strada e sotto di essa si raggruma in fondo il malessere, sotto forma di una melma nerastra i cui miasmi infettano i corpi dei vivi per lasciar esplodere i loro conflitti. Come quello fra Thomas e suo figlio Enrico, che poggia su traumi sepolti nel passato e che scopriremo in corso d’opera. Da queste suggestioni il film parte prendendosi i suoi tempi, e immerge lo spettatore in una quotidianità che ha il sapore del reale, delle scaramucce all’ordine del giorno in una realtà stanca e nervosa, dove ogni piccolo gesto è pretesto per conflitti più ampi, in cui ognuno riconoscerà immancabilmente il proprio vicinato, il cinismo dei nostri tempi sotto pressione. La visione è lucida, ma al servizio di una progressione lineare, dove l’horror è lasciato fermentare per l’esplosione riservata al terzo atto. Nel frattempo si passano in rassegna vari stati d’animo: c’è il rancore transgenerazionale, la frustrazione per una paternità fallita e la rabbia per una famiglia che ha perso ogni armonia. C’è l’odio per la propria collocazione sbagliata che unisce gli animi più soli e spesso ribalta le dinamiche fra chi ha bisogno e chi assiste.

 

 

E ci sono le varie voci cacofoniche dei dispositivi di differente riproduzione della realtà, dai cellulari alle dirette streaming, ai telegiornali, secondo una logica a cavallo dei linguaggi che Paolo Strippoli aveva già lasciato intravedere sia nei suoi corti (si pensi a Senza tenere premuto) che nell’esordio di A Classic Horror Story, realizzato in coppia con Roberto De Feo. Proprio il film precedente è un’ottima cartina di tornasole per comprendere meglio lo stile e lo Strippoli-pensiero: dall’uso espressivo delle musiche, ai viraggi abbacinanti ma di grande eleganza delle inquadrature, fino al ripiegamento su sé stessa di Matilda Lutz nell’ultima sequenza in mare, qui parafrasato nelle fughe di Enrico fuori dalla realtà paterna e nello scenario decadente della piscina abbandonata, almeno finché la tensione non arriverà al suo punto di rottura. Strippoli, in questo senso, segue un percorso personale, pur affidandosi a un progetto altrui, nato da un soggetto di Jacopo Del Giudice già vincitore del Solinas. Realizza un dramma-horror che è tanto più realistico e duro quanto più sembra astrarsi nelle forme del genere puro: i palloncini alla IT, le figure incappucciate sotto la pioggia battente come il Leatherface degli ultimi Non aprite quella porta, la melma alla Ghostbusters II, sono tanti tasselli di un immaginario fieramente in controbattuta rispetto alle dinamiche tipiche del cinema nostrano tradizionalmente inteso. Strippoli li utilizza senza facili ammiccamenti cinefili, ma come un bagaglio esperienziale che guarda al nostro presente di pezzi da ricucire e opera la sua personalissima ricostruzione del mondo attraverso un linguaggio visuale che è una chiamata a riconoscersi e ritrovarsi.

 

 

Per questo la “sua” Roma degli ultimi descrive davvero un’umanità differente, fatta di prostitute da cui trovare calore umano, di guardiani addetti alla sorveglianza dei ruderi da compatire più che da temere, di senzatetto da proteggere dai bulli, in una mappatura sociale che è essa stessa il ribaltamento delle convenzioni narrative. Che poi è il presupposto primo di ogni horror che si rispetti, quello che apre percorsi nuovi e immagina punti di vista alternativi – anche troppo per una censura che, evidentemente non sapendo come contenere una tale fertilità di pensiero, ha affibbiato al film un vergognoso divieto ai minori di 18 anni. La pioggia in questo senso ha una consistenza grumosa, viscida, possiede un peso come in una pellicola di Hideo Nakata e rende le vie dell’Urbe più spettrali, oscure, tali da farle stringere addosso ai personaggi. Ma è anche qualcosa che sta lì come a dover lavare le colpe che il suo fango inevitabilmente amplifica. In questo senso, e in barba alla sua prospettiva anche intima, “piccola”, Piove è anche un film epico, nel senso etimologico del racconto delle grandi gesta necessarie a rifondare l’umanità.