Il dubbio si fa carne: Conclave di Edward Berger

Noi serviamo ideali, ma non sempre siamo ideali.
Dai dialoghi del film

Conclave, tratto dal romanzo di Robert Harris, ha quanto meno il pregio di segnare una cesura netta con il cinema di Natale che occupa gli schermi in questi periodi. Con un certo coraggio distributivo in pieno periodo natalizio esce questo film che quanto meno riesce a rimescolare alcuni elementi di un dibattito politico che diffusamente appartengono alla cronaca. Tutto questo è fatto con una sua personalità e tutto all’interno di un gioco che non è in bilico tra il metaforico e il reale. È un rimpallo di rimandi che sta tutto dentro il linguaggio rituale della Chiesa cattolica, linguaggio che resta per lo più oscuro, come (ormai) il latino, la lingua ufficiale dell’apparato ecclesiastico della Curia romana. I temi di una immediata contingenza ci sono e il Papa, che con la sua scomparsa dà il via all’intrigo, ha molte assonanze con Papa Francesco e le sue posizioni liberali accentuano queste somiglianze. Il dibattito segreto e infido che si aprirà dopo la morte del Pontefice riflette la presenza di fazioni che anche nel quotidiano sopravvivono nelle stanze del potere ecclesiastico. Per ogni film, per lo più horror o thriller ambientati all’interno delle segrete stanze vaticane o negli austeri collegi cattolici, il clima è sempre quello del sospetto, delle misteriose trame che stanno dietro ad eventi più o meno inspiegabili. Il film di Berger non si sottrae a questa regola e procede fra stanze fredde, bianchi corridoi disanimanti, marmi grigi e vortici di scale oscure.

 

 

È in questo ambiente che si svolge il Conclave che dovrà eleggere il nuovo Papa e nel quale si scontreranno quelle due opposte correnti, quella dei liberali che vorrebbero una Chiesa aperta alle questioni che riguardano gli omosessuali e le donne e quelli che invece remano contro per una politica che torni al passato, austera e limitante di certe libertà a cominciare da quella della lingua rituale che dovrebbe essere utilizzata, sempre e comunque il latino. Spetterà al Cardinale Lawrence (Ralph Fiennes), decano e responsabile della Curia, alla morte del Papa dipanare la fitta matassa di scheletri negli armadi, di peccati e appropriazioni varie che condizionano l’elezione del nuovo Papa. E se da una parte il cardinale Tedesco (Sergio Castellitto) rappresenta l’ala dura di un quasi revanscismo reazionario, il cardinale Bellini (Stanley Tucci) vive i suoi dubbi sul futuro di una Chiesa legata ad un passato che non deve tornare. Il Cardinale Trembley (John Lithgow) bada agli affari propri e a fare fuori qualche scomodo concorrente. Ma una nuova figura di Cardinale che viene da infuocate zone di guerra si fa protagonista, è il Cardinale Benitez (Carlos Diehz) sconosciuto a molti e divenuto cardinale all’insaputa dell’intero apparato ecclesiastico. È il lascito di un Papa che aveva idee quanto meno avanzate sulla gestione della politica del Vaticano. È dunque in questo sguardo che travalica ogni metafisica della spiritualità, ma lo affonda, invece, dentro le cose umane concedendo spazio all’una o all’altra visione, che il film di Berger mostra una propria natura originale, sfuggendo da ogni timore del già visto.
Il tema sul quale principalmente la storia trova una sua istanza teorica è contenuto nel discorso che il Cardinale Lawrence pronuncia ai propri confratelli poche ore prima dell’apertura del Conclave. In quel discorso il prelato parla di dubbio e certezza, affermando che solo il dubbio porta alla fede e mai la certezza. È dunque, questa, oltre che tema dominante del film, sottotesto inscindibile anche dallo svolgersi della trama, una chiara dichiarazione di appartenenza, uno schierarsi da parte dell’uno piuttosto che dell’altro fronte ed è in questa distanza tra dubbio e certezza che si misura il suo dubbio per la preghiera, ma si misura anche l’approccio alle cose del mondo in una prospettiva filosoficamente speculativa. Si misura, soprattutto il futuro della Chiesa, il futuro di un potere di peso negli equilibri mondiali e il Papa che uscirà eletto da questo Conclave diventerà il senso incarnato di questo dubbio, di questa incertezza, di questo nuovo equilibrio che dovrà dominare la politica della Chiesa cattolica.

 

 

La sua elezione, del tutto imprevista spariglierà le carte e il nome che sceglierà, Innocenzo, pensando al passato, diventa foriero di una nuova affermazione della Chiesa come potere, ma al tempo stesso l’immagine del nuovo Papa assomiglia a quella di un Redentore capace di mettere tutti d’accordo. È in questa ambiguità di fondo, che riflette quella degli apparati politici, delle nomenclature di ogni potere, che il film sa restituire la sua efficacia nella metafora narrativa che utilizza. Tutto rischia di assomigliare ad una blasfemia, ma è in gioco il futuro di un mondo intero e non vi è tempo per le mezze misure. La visione del film di Berger è tutta terrena e se si arricchisce di trame oscure o complotti di corridoio, tutto diventa funzionale non tanto alla scoperta di ciò che accaduto al di fuori del racconto, ma a ciò che accade al di fuori di quelle mura vaticane così protette. In un film che propone la stretta clausura, regola dominante per l’elezione di un nuovo successore di Pietro, vi è forse l’intrusione più estrema di ciò che accade nella città che ospita nel proprio ampio perimetro, il Vaticano. Le tensioni politiche, gli estremismi religiosi e i contrasti politici finiscono con l’irrompere violentemente dentro quella bolla occlusa agli sguardi e alle orecchie del popolo. In questa magnifica clausura dunque si soffre così come si soffre fuori e si prova ad offrire un rimedio al mondo. Non è una riabilitazione – ove mai ce ne fosse bisogno – della Curia e dei suoi componenti, quanto piuttosto una riduzione ad una umanità consapevole e alla fine responsabile, forse un po’ autoassolutoria, ma in fondo, come (quasi) si diceva in un altro film, chi non lo è almeno un poco?