Nel 1996 il primo Mission: Impossible si offriva al pubblico quale semplice prodotto derivato da un più celebre modello seriale televisivo, perfettamente in linea con un trend abbastanza in voga nello stesso periodo (si pensi a operazioni simili come The Avengers – Agenti speciali o Lost in Space). Lo faceva però ponendo il protagonista storico Jim Phelps nel ruolo dell’antagonista, contro il nuovo arrivato Ethan Hunt, segno di una riscrittura che mirava a fare di Tom Cruise il punto nodale di un’operazione ben più ambiziosa della mera trasposizione televisiva. I fatti hanno dato ragione alla scelta: a quasi trent’anni di distanza, e arrivata al settimo film cinematografico, si può ragionevolmente affermare come la saga di Mission: Impossible abbia reciso con forza i cordoni originari per diventare invece laboratorio del percorso attoriale e autoriale di Cruise. Non solo perché – con la sola eccezione del recente Top Gun: Maverick – resta il suo brand più redditizio e che non sembra perdere un colpo, ma anche perché, al suo interno, le caratteristiche di conservazione/riconoscibilità e innovazione/rivoluzione continuano a essere portate avanti con ammirabile coerenza. Il divo americano resta infatti un’icona fuori dal tempo, che non sembra accusare il peso degli anni, proponendosi ogni volta quale personalità cinetica che afferma la sua fisicità giovane attraverso stunt sempre più elaborati e rivendicati nella loro verità di numeri acrobatici compiuti senza l’ausilio di controfigure. Che resti attaccato a un aereo in decollo, scali le torri più alte del mondo o si lanci nel vuoto con una motocicletta, l’Ethan Hunt di Tom Cruise rinnova ogni volta il patto d’azione con un pubblico che riconosce la folle dedizione dell’attore alla causa “analogica” di un cinema che è materia “impossibile” da rischiare in prima persona, rinnovando in tal senso la tradizione di icone come Buster Keaton o Jackie Chan.
Al contempo, questa sfida a superare continuamente i propri limiti, è portata avanti da Cruise nell’eterna reiterazione di una fisicità quasi incorporea: seguendo un percorso intrapreso già in altre pellicole (si pensi a Jack Reacher e, in casi più estremi, alle incredibili metamorfosi di Rock of Ages e Tropic Thunder), l’attore tende infatti a smaterializzarsi, diventando icona priva di identità definita. Diviso tra varie location e una (non) esistenza ignorata persino dalle alte sfere governative e affidata a pochi complici fidati, Ethan Hunt è di fatto un’ombra che si insinua tra le varie missioni, non a caso contrassegnate nei titoli sempre da termini sfuggenti: Ghost [Protocol], Rogue [Nation], Dead [Reckoning]. Risulta perciò duttile quel tanto che basta da mantenere sempre la centralità narrativa, ma anche una perfetta spalla per partner femminili particolarmente incisive: la ladra “hitchcockiana” di Hayley Atwell, la vedova bianca di Vanessa Kirby e, ovviamente, l’affascinante complice britannica Ilsa di Rebecca Ferguson. In tutto questo, appare perciò assolutamente coerente il fatto che a giocare stavolta il ruolo dell’antagonista non sia tanto un personaggio, ma una non meglio definita “Entità” digitale che si infila nei sistemi informatici portando il caos, cui Hunt deve opporre ancora una volta la velocità del movimento, la capacità di sfuggire ai meccanismi di riconoscimento confondendosi nella folla, la forza estrema dei suoi stunt. Una mobilità totale che si accompagna ai vari marchingegni che ogni volta devono essere messi in campo: maschere, auto sicure, motociclette e treni sono destinati di volta in volta a diventare non solo ausili, ma anche ostacoli alla missione. Esemplare in tal senso il treno che diventa meccanismo free climbing da scalare per evitare la caduta nel burrone sottostante.
In tal modo, Dead Reckoning mantiene una riconoscibilità narrativa, pur all’interno di quello che appare come il meccanismo più estremo della saga, in cui la serietà del pericolo cui sono sottoposti i vari personaggi, si accompagna senza soluzione di continuità a una natura quasi cartoonesca. In questo modo, la sfida tra i protagonisti umani e l’Entità digitale riflette con sagacia i timori e le discussioni odierne sull’integrazione problematica delle intelligenze artificiali con la nostra società informatizzata e i pericoli relativi alla sostituzione delle competenze umane da parte di programmi particolarmente sviluppati. Ma questa drammaticità è ugualmente capace di produrre aperture in cui Hunt deve prodursi in spassose corse per le strade di Roma sulla Cinquecento gialla, con le svariate pantere della Polizia alle calcagna, che figurativamente riprendono gli inseguimenti fra Lupin III e le pattuglie dell’Ispettore Zenigata nel celebre anime giapponese. Nel gioco di specchi degli inganni, il film trova così il suo peculiare doppio passo, che lo porta a essere certamente un perfetto e consolidato meccanismo blockbuster: qualcuno potrebbe notare come in fondo la trama sia sovrapponibile in modo quasi perfetto a quella di Indiana Jones e il quadrante del destino, con le due metà del meccanismo da recuperare in giro per il mondo, su una vicenda che affonda nel passato dei rispettivi protagonisti. Ma, al contempo, è anche uno dei film più innovativi e capaci di stare nella contemporaneità tra quelli prodotti dalla Hollywood contemporanea. Un’alchimia a suo modo impossibile, lo stunt definitivo e per questo perfetto per Tom Cruise.