Siamo nell’alveo di una narrazione delle articolazioni gender applicate alla sfera identitaria fluida dell’infanzia e dell’adolescenza, ma l’esito è piuttosto diverso dalle efficaci rifiniture di Lukas Dhont (Close e Girl ), tanto quanto dalla dimensione più mentale e astratta del notevole They di Anahita Ghazvinizadeh: 20.000 specie di api, opera prima della regista basca Estibaliz Urresola Solaguren (vista e premiata lo scorso anno alla Berlinale), è uno di quei film che respirano addosso alla flagranza della materia che filmano, lavorando sulla pregnanza del contesto in cui la vicenda è calata. La presenza in scena di Cocó è il perturbante trasparente del gineceo familiare in cui il film si muove: con i suoi otto anni, lui è il più piccolo dei tre figli di Ana, ma anche quello che maggiormente impone la sua identità alla famiglia. All’anagrafe è registrato di genere maschile, ma il suo essere lo porta verso quello femminile e, per quanto in famiglia si tenda a valutare la cosa come una fase transitoria dell’infanzia, Cocó pensa a se stessa come Lucia e persegue con decisione quella che per lei è sempre più una consapevolezza.
Lo spazio libero della vacanza estiva, nella profonda provincia basca dove vive la nonna e la zia e l’intera famiglia, diventa per Cocó lo specchio in cui la sua identità (di genere) si riflette concretamente: un confronto diretto non più solo con i genitori, la sorella maggiore e il fratello, ma con tutta la famiglia, che la conosce come Cocó ma deve imparare a scoprirla come Lucia. Per Ana quella vacanza è anche una fuga da un matrimonio che non va bene e il momento per tentare di dar seguito alle sue ambizioni sulla scia del padre artista, nel cui laboratorio ormai abbandonato passa gran parte del suo tempo. Per Cocó è l’ambito in cui diventa reale il confronto con il corpo solido familiare, quello da cui proviene e che lo riconosce da sempre: la nonna che lo ama e non capisce bene il suo turbamento e la zia che coltiva api e ha la sensibilità per capire, accettare e orientare la determinazione della bambina. Estibaliz Urresola Solaguren parte da un soggetto estremamente calibrato nelle argomentazioni psicologiche e nelle articolazioni drammaturgiche, ma ha la sensibilità per lasciarle svaporare nella flagranza della composizione. La scena è nuda, di un naturalismo che evita qualsiasi sovrastruttura: gli esterni dialogano con gli interni delle case, calati nell’intimismo familiare di provincia. Alberi, luce e figure stanno nel quadro con una semplicità che non conosce mediazione fotografica, tutto svapora nella luminosità diafana e avvolgente di una controra che assopisce i contrasti e, negli interni, attutisce le ombre. L’intenzione di offrire un ambiente caldo e accogliente alla storia è coerente con la scelta di non cavalcare la dimensione sociale della questione.
Il film sta piuttosto nello spazio chiuso dei sentimenti, nell’intimità dell’elaborazione psicologica che non è solo quella di Cocó/Lucia, ma anche quella dell’intera famiglia, che nelle intenzioni di Estibaliz Urresola Solaguren non è un corpo estraneo, ma partecipa al processo psicologico. La sponda offerta dalla figura di Ana e dal suo rapporto irrisolto con le proprie ambizioni e lo spettro della figura paterna, può apparire un po’ didascalico, ma è utile a creare una profondità di campo in cui la storia di Cocó/Lucia trova una maggiore naturalezza. Lo stesso scenario basco, con la solidità identitaria che si porta dietro, offre poi una cornice implicita che la regista utilizza con attenzione per creare uno spazio corale essenziale alla definizione del contesto. La lucidità con cui la piccola Sofía Otero (premiata a Berlino) si confronta con le pulsioni di Cocó/Lucia offre al film una solidità fondamentale, sostenuta del resto dal lavoro di Patricia López Arnaiz, che col personaggio di Ana pone la sponda di un confronto con le insicurezze irrisolte dell’età adulta.