Forse, prima di entrare in quel più esplicito merito dell’ultimo film del romagnolo De Luigi, qui alla sua terza regia, vale la pena di indagare con più attenzione e un po’ di azzardo su quelle che sono le aspirazioni un po’ celate del film, dall’andamento da commedia e con un retrogusto se non proprio amaro almeno agrodolce. Rocco (Fabio De Luigi) abita con il padre (Alessandro Haber) che è arrivato alla fine della sua vita dopo avere subito i tradimenti della moglie e l’addio di Guido, l’altro figlio (Stefano Accorsi). Questi, un parvenu cafone e presuntuoso, ricompare solo per il funerale nella consapevolezza della distanza che ormai lo separa da Rocco che lo accoglie freddamente sperando solo che vada via il più presto possibile. Ma come era prevedibile i due ritrovano progressivamente la complicità infantile e decidono di spargere le ceneri del padre sulla tomba della madre. Inizia così il loro viaggio a bordo dei mitici Ciao Piaggio anni ’70 che li porterà dagli Appennini tosco emiliani fino a Cervia dove riposano le spoglie della madre. Durante il viaggio molte cose cambieranno e Guido ritroverà il piacere di una inattesa paternità. La storia, in realtà, non è proprio originalissima e in fondo di ricerche fraterne ne abbiamo viste e perfino di viaggi a bordo di improbabili mezzi, ed è per questo che il Ciao vecchia generazione riporta alla mente il tagliaerbe lynchano di The stright sory. Anche lì un viaggio finalizzato alla ricerca del fratello perduto, alla ricerca di una riconciliazione desiderata e non più rinviabile.
Ma similitudini a parte e trascurando ogni altra relazione segreta del film, vale la pena di soffermarsi su un profilo che sebbene appaia in tutta la sua evidenza si mimetizza con il racconto facendo parte di quel bagaglio consueto che ha accompagnato tanta commedia italiana, ma che qui sembra assuma un suo particolare rilievo, un suo specifico valore anche personale per il regista. 50 km all’ora (remake del film tedesco 25 km/h di Markus Goller, campione di incassi in patria nel 2018), è un film che per i suoi tre quarti vive di quel viaggio insolito e strampalato con i due mezzucci antiquati ma ancora efficienti, che tagliano di netto il lungo tragitto fino a Cervia attraversando le montagne dell’Appennino, aprendo lo sguardo su quelle valli emiliane e poi romagnole, su quelle strade fatte di paesi che segnano la topografia di una delle regioni più celebrate d’Italia e ricca di un patrimonio culturale e paesaggistico invidiabile. È su questo paesaggio che De Luigi insiste con dovizia di immagini, con sguardo affettuoso arrivando dalla terra montagnosa fino alle paludi del delta del Po, tra colline e panorami che fanno innamorare. Che il paesaggio italiano sia stato da sempre uno dei personaggi dei nostri film è storia risaputa. Esistono decine di saggi che indagano sul tema frequentato dai nostri autori sul nostro territorio come luogo di esaltazione dei sentimenti che il cinema sa veicolare. È proprio questa la direzione che il film di De Luigi segue con attenzione e dedizione, oltre che con quella malinconia misurata di cui è capace, complice la comicità umanistica alla quale la sua appartiene.
A conferma di questa impressione va anche detto che il film, a completare un quadro già subliminalmente chiaro, sia servito al regista e sceneggiatore anche per chiamare a sé una schiera di attori e caratteristi emiliani in una specie di piacevole rimpatriata. Hanno fatto parte della squadra: i bolognesi Haber, Accorsi e Stefano Bicocchi in arte Vito, il romagnolo Cevoli oltre alla cesenate Alice Palazzi. Una concentrazione di attori emiliani che è raro a vedersi. Si ha dunque l’impressione che De Luigi, al di là di ogni altro tema che il film argomenta, abbia voluto dedicare questa nuova fatica registica alla sua Emilia Romagna con uno sguardo molto indulgente alla malinconia del non esserci, a quella idea che abita ciascuno di noi per un ideale ritorno alla terra d’origine. Il suo motorino sgangherato e quello dell’impetuoso e antipatico fratello, hanno attraversato quei luoghi mostrando allo spettatore la loro inusuale bellezza, quel loro fascino un po’ segreto, unito al piacere del vivere che si esprime nel piacere paesano di una bonaria festa di paese. Più lampante appare invece la traccia che il film svolge con diligenza. Il tema della paternità che a ben guardare è al centro della storia, quella burbera e impietosa di Haber che non perdona a Guido, il figlio perduto, di avere preso le parti della madre dopo il tradimento, ma anche quella ritrovata dello stesso Guido che finisce per diventare il personaggio centrale – contrariamente a quanto si possa pensare – laddove la figura di Rocco serve solo a fare da spalla all’imprevedibile fratello, esaltando, con il suo comportamento composto, le sue follie estemporanee. 50 km all’ora diventa quindi un film che sa il fatto suo e cresce di spessore nella meditazione di quella ricerca affettuosa che fa parte di un tratto tutto italiano nel quale è facile riconoscersi. Un atto d’amore di De Luigi verso quell’Emilia e quella Romagna così disponibili ad un’allegria connaturata, che diventa contagiosa nella complicità segreta di questa fratellanza che sa trovare il giusto equilibrio tra tempo dei ricordi e tempo presente, tra trasgressione e osservanza delle regole, in un regolamento di conti che finisce per riconciliare le diversità e rinsaldare legami, oltre a stringerne altri che muteranno le vite future.