Il parossismo stilistico di Limonov di Kirill Serebrennikov

Ėduard Veniaminovič Savenko nasce in una città industriale della Russia orientale e cresce a Charkiv, oggi in Ucraina. Manifesta sin da giovanissimo un carattere irrequieto simboleggiato dal nome d’arte che presto assume: “Limonov” richiama sì all’onomatopea del limone, ma anche a quello della limonka, la bomba a mano che comparirà sulla prima pagina di una rivista da lui fondata negli anni successivi. Il grigio ambiente letterario di Charkiv gli sta stretto, spingendolo prima a Mosca, dove pubblicherà i suoi primi libri, e poi a New York, privato della cittadinanza russa, dove si stabilirà con la moglie Elena. L’incapacità di star fermo, la naturale irrequietezza, l’allergia per le regole (sociali, culturali, politiche) lo vedrà abbandonare gli Stati Uniti per poi raggiungere Parigi, dove flirta con la celebrità, e infine di nuovo Mosca. Esule ribelle che torna in patria in piena glasnost solo per schierarsi di nuovo contro tutto e contro tutti, entrando in politica con posizioni nazional-bolsceviche, provocatore di variopinte (e spesso inquietanti) istanze ribelli. Come un salmone, Limonov ha trascorso una vita – molte vite – fieramente controcorrente, orgogliosamente dalla parte del torto. Emmanuel Carrère nel 2011 gli ha dedicato una biografia, romanzata e non convenzionale come ogni oggetto letterario di Carrère, che rappresenta il punto di partenza del film diretto da Kirill Serebrennikov. Limonov (in concorso a Cannes77) è un progetto dalla lunga gestazione produttiva, passato da Saverio Costanzo a Paweł Pawlikowski (che firma la sceneggiatura) per finire nelle mani di Serebrennikov. L’idea che la vita di un personaggio intimamente, profondamente, drammaticamente russo fosse raccontata da un suo connazionale – tra l’altro un autore anche lui fieramente non allineato – poteva rivelarsi un’intuizione felice.

 

 

La vita apolide di Limonov ben poteva rispecchiarsi in un film dalle molte teste: prodotto dall’Italia (con Francia e Spagna), girato da un russo e interpretato da un inglese (Ben Whishaw, che fu John Keats per Jane Campion), sottolineando ancora una volta la labilità di ruoli e confini che è al centro di questa storia, di questa esistenza. Purtroppo, l’approccio a una materia così sfaccettata e ribollente si rivela insufficiente a restituire la sua complessità. Dal bianco e nero dei salotti di Charkiv passando per Mosca per arrivare a una New York canonica e cartolinesca, Limonov attraversa la storia con l’andatura di un punk annoiato, attratto dalla poesia e dalle donne, mosso da motivazioni più enunciate che messe in scena, come se la sua inquietudine fosse un semplice vezzo giovanile. Il film cambia formato, tonalità di colori, martella con una colonna sonora che ricalca il cliché del punk emarginato ma vitale. Carrellate ostentate, stacchi di montaggio frenetici e gli immancabili inni generazionali di Lou Reed, Sex Pistols e Ramones: Limonov sceglie la via del parossismo stilistico per alleggerire il peso di un personaggio ferocemente ambiguo, ma così facendo non abbandona mai la superficie delle cose.

 

 

Anche il valore tristemente politico dell’uomo-Limonov, il suo ruolo inafferrabile nella Russia post-comunista, il suo sostegno alla causa dei separatisti russi in Ucraina – argomento oggi attualissimo – vengono trattati come fatti incidentali: la parabola di Limonov si riduce a una litania di episodi contraddittori, scanditi dalla divisione in capitoli del film, di ostentato “brio”, gradevole quanto vuoto. Se nel proprio romanzo Carrère – consulente del film e presente in un cameo autoriferito – metteva sé stesso nel ruolo di antitesi concettuale di Limonov, testando sulla propria pelle quel misto di fascinazione e repulsione, ragionando sul potere affabulatorio e sulla mitomania di un uomo-personaggio e finendo per regalare un ritratto sfaccettato e non rasserenante dello scrittore russo, Serebrennikov si limita a farne un semplice antieroe cinematografico, un uomo dallo spirito quasi futurista – attratto dal movimento, dal cambiamento, dall’abisso del caos – ma dalle motivazioni impalpabili. Limonov – The Ballad è poco più di una commedia agrodolce e colorata, piena di canzoni, girata da un virtuoso che sembra più interessato al “come” piuttosto che al “cosa” si stia raccontando. Un’operazione di stile e di patina che assomiglia molto a un’occasione persa.