Atto Primo: Vivavoce Tour. È cominciata così la nuova avventura di Francesco De Gregori, per definizione “il Principe” dei cantautori italiani: dentro una sontuosa tournée primaveril/estiva con cui ha portato in giro per l’Italia i classici della sua produzione e rispolverato alcune canzoni che gli altri (non lui) avevano dimenticato, rinnovandole e rivestendole di nuove sonorità, più moderne e decisamente più varie rispetto al passato. E siccome di musicisti che hanno in archivio materiale pari a quello del cantautore romano in Italia ce ne sono forse un paio; visto che il nostro è tornato ad essere moderatamente contento, pensando ai quarant’anni del suo Rimmel (“Avevo ventiquattro anni quando lo feci, e ricevetti una consacrazione inattesa: il successo, l’adulazione, il denaro cambiano tutto, ma il modo di rapportarmi agli altri, al pubblico, alla musica è rimasto sempre lo stesso. Ma sono felice, certo”), c’è da salutare il ritorno con grande soddisfazione. Vero che manca da tempo (dal 2012) un disco di inediti, ma non c’è da rammaricarsi più di tanto, pensando alla nuova vita di canzoni immortali come Pezzi di vetro, La donna cannone, Non c’è niente da capire, Alice, Finestre rotte, Titanic, Viva l’Italia, Bufalo Bill, Generale…
Atto Secondo: Rimmel. Quarant’anni di Rimmel, pietra miliare della canzone italiana: Francesco De Gregori scopre d’incanto che “è rimasto tra le pagine” molto più di quello che avrebbe pensato tanto tempo fa, quando faticava a trovare un equilibrio tra impegno e disimpegno, e soprattutto che prevalgono le pagine chiare sulle scure, per cui vale la pena festeggiare. Supera l’abituale ritrosia e celebra in musica il 22 settembre, scegliendo addirittura l’Arena di Verona, con il pubblico che risponde entusiasticamente, assunto che il sold out è datato fine agosto. E per l’evento abbandona la consueta riottosità, smussa gli spigoli del suo carattere, dà una lucidata alla sua timidezza, e dialoga addirittura compiaciuto con i dodicimila spettatori che hanno riempito il tempio della lirica: “bella gente” (la chiama proprio così), a cui fa omaggio di un prezioso 45 giri della title track che è, come sottolinea egli stesso, “un oggetto da tenere, come se vi avessi regalato una rosa”. La scaletta del concerto rispecchia la peculiarità della serata: prevede infatti le nove tracce di un disco seminale e brani che il cantautore romano canta ora con più gusto di altri. Ma senza un ordine prestabilito, dichiaratamente pronto al “pastiche”, con voglia di bollicine. Riserva a sé qualche classico, poi accoglie gli ospiti (“Ho chiamato gli amici, non i parenti stretti, musicalmente parlando, e ho detto loro: Rimmel sarà al centro della serata, non un totem da adorare”) e li accompagna con dolcezza: Caparezza (fantastico in Bufalo Bill), Elisa, Giuliano ”Negramaro” Sangiorgi (decisamente ispirato e molto più a suo agio di quanto fosse lecito aspettarsi), Malika Ayane (fuori fase in Piccola mela, meravigliosa a violoncello e voce in Pezzi di vetro), Fedez (emozionatissimo, come uno scolaretto davanti al professore), L’Orage, Ambrogio Sparagna. E Checco Zalone, che rispolvera antiche virtù da cabarettista e fa il ”cattivo” con il medley La donna cannone/Piano Bar, in cui imita le voci di illustri assenti quali Vasco, Tiziano Ferro, Gigi D’Alessio, Eros Ramazzotti …De Gregori riserva un onore speciale a due amici: la star Ligabue, reduce dal bagno di folla di Campo Volo (150.000 fans adoranti radunati al suo cospetto), presente in punta di piedi per non rubare la scena, di cui Francesco intona Il muro del suono e da cui riceve supporto in Alice, Rimmel, Sempre per sempre; Fausto Leali, in gran forma a dispetto delle settanta primavere in arrivo, che dopo un’applauditissima versione de La valigia dell’attore, si vede omaggiare con il cavallo di battaglia A chi, non esattamente nelle corde del romano (che tuttavia l’ha pure incisa qualche anno fa),quindi segno di grande stima. Dopo tre ore il concerto si chiude coralmente sulle note di Buonanotte Fiorellino, nella versione che riecheggia la dylaniana Winterlude. È una finestra sul domani: a fine ottobre arriva Amore e furto, in cui De Gregori traduce e interpreta 11 pezzi del mitico Bob, l’amore musicale di sempre.
Atto Terzo: amore e furto in casa Dylan. Pensato lungamente, annunciato in estate, protetto gelosamente fino quasi all’ultimo momento (quasi, perché le radio hanno esigenze e maturano crediti che per un artista è difficile ignorare), è infine uscito Amore e furto. De Gregori canta Bob Dylan. Il principe di casa nostra ama da sempre, non è un mistero, il re planetario dei cantautori. E l’oggetto del suo amore sono le canzoni in sè, ma anche il modo di interpretarle, lo stile. Al punto che talvolta De Gregori ha trovato opportuno ispirarsi a Dylan anche nella (non certo ammirevole) abitudine di stravolgere dal vivo i brani fino a renderli praticamente irriconoscibili. Il disco è senza dubbio una dichiarazione d’amore nei confronti del songwriter del Minnesota, perché De Gregori sceglie undici pezzi di valore, fama e qualità diverse nello sconfinato repertorio dylaniano e li traduce con precisione maniacale e rispetto assoluto (in alcuni casi sacrificando a questa perfezione filologica qualcosa sul piano della scorrevolezza: basta confrontare, in tal senso, la versione odierna di Via della povertà/Desolation Row con quella più libera che lo stesso De Gregori realizzò a quattromani con Fabrizio De Andrè), concedendosi licenze d’autore soltanto laddove la lingua italiana strideva in maniera insopportabile con la melodia e la ritmica originali. Ma poi li canta alla sua maniera, quella che da sempre porta dentro di sè anche una componente dylaniana, ma che è inconfondibilmente peculiare nel panorama italiano. In ordine alle sonorità, la cifra stilistica degregoriana è evidente: attraverso gl iarrangiamenti si innesta sul sound di Dylan, facendolo proprio. Per questo Amore e furto suona come un disco di De Gregori, con quel tocco di West, di campagna europea e di elegia bucolica che convivono perfettamente dentro un contenitore in cui la voce e le chitarre la fanno da padrone. Ci sono i classici: I Shall Be Released (che a voler essere pignoli è un brano di Dylan inciso da The Band è rifatto dal menestrello di Duluth solo in un secondo momento: è inserito in The Basement Tapes); Desolation Row, dal capolavoro assoluto Highway 611Revisited. Un paio di semi-classici: Sweetheart Like You (da Infidels); Subterranean Homesick Blues (da Bringing It All Back Home). E varie cose piuttosto buone che De Gregori rende con tenera attitudine, misura e passione a stento trattenuta. Si potrà forse obiettare sulla necessità di un disco come questo, che non aggiunge nulla ai brani di Dylan e probabilmente non accontenterà tutti gli appassionati di De Gregori in virtù di una certa prolissità e di una complessità ingombrante rispetto alla raffinata “leggerezza” dell’italiano. Ma la scommessa degregoriana va apprezzata e accolta come tale: anche quando rischia di sembrare un furto, resta sostanzialmente un atto d’amore.