L’infanzia fuori campo: Armand di Halfdan Ullmann Tøndel

I bambini ci guardano o sono guardati: il limite tra protezione, controllo, giudizio, attenzione è un po’ lo specchio della buona o cattiva coscienza degli adulti, ovvero della società, e può diventare anche l’immagine riflessa dello sguardo dei figli sui genitori… Un po’ come accadeva in Carnage di Roman Polanski ma anche in Anatomia di una caduta di Justine Triet, in Armand l’infanzia diventa il punto focale di un processo alla verità, teso a stabilire il contatto critico tra la realtà dei fatti e la narrazione che li valuta. A differenza del film di Justine Triet, però, nell’opera prima del norvegese Halfdan Ullmann Tøndel, premiata a Cannes con la Camera d’Or, l’infanzia resta sostanzialmente fuori campo, è l’oggetto di un contendere che riguarda eventi di cui i bambini sono stati protagonisti, attorno ai quali l’età adulta costruisce un edificio sovradimensionato di attenzioni, valutazioni, prevenzioni e chiarimenti. Lo schema adottato propone in sostanza i bambini come testi di un approccio inquisitorio al mondo reale, in cui azioni e reazioni degli adulti sono l’oggetto di una conflittualità destinata a essere socializzata nella politesse dei modi a livello personale e nella cosiddetta policy istituzionale delle strutture.

 

 

I fatti riguardano due bimbi di sei anni e qualcosa che è accaduto a scuola, di cui i genitori e gli insegnanti parlano nel corso di un colloquio: Elisabeth (Renate Reinsve), nota attrice in crisi per la recente morte del marito, è infatti stata convocata perché suo figlio Armand, sei anni, avrebbe aggredito e addirittura minacciato sessualmente il suo compagno nonché cugino Jon, rinvenuto nel bagno della scuola in lacrime e con i pantaloncini sbottonati. Le minacce di violenza, per quanto abnormi possano sembrare considerata l’età dei protagonisti, sono prese molto sul serio dai genitori di Jon, il padre Anders e soprattutto la madre Sarah (Ellen Dorrith Petersen), che chiedono alla scuola di prendere provvedimenti, accusando implicitamente Elisabeth di crescere il figlio in una situazione familiare malsana. Tutto il resto è un processo psicologico mediato goffamente dagli insegnanti, che verte sul confronto incrociato tra l’assurdità delle accuse mosse a un bambino e la necessità degli adulti di chiarire la verità dei fatti accaduti, delle parole e dei gesti compiuti da Armand (riferiti da Jon ai genitori e da questi riportati a scuola) e definire i confini di un intervento dell’istituto e delle autorità, che ovviamente trova Elisabeth principale accusata. Il setting scolastico scelto da Halfdan Ullmann Tøndel (che, detto per inciso, ha per nonni Ingmar Bergman e Liv Ulmann), crea un quadro che ingloba tutta la viscosità burocratica delle istituzioni e la porosità emotiva delle relazioni parentali in gioco nel confronto tra strutture familiari e pubbliche.

 

 

Concentrato sulla fragilità altamente reattiva di Elisabeth (notevola Renate Reinsve per semplicità e immediatezza), il film architetta un impianto drammaturgico che rileva progressivamente la vera natura delle questioni in campo: una serie di smascheramenti delle relazioni familiari , dei vissuti pregressi, dei sensi di colpa cristallizzati nel passato recente e anche remoto, che crea un tessuto di rivelazioni destinato ad avvolgere l’intera questione in campo. La verità degli eventi diventa materia quasi amorfa, manipolabile in maniera più o meno consapevole in relazione alla narrazione che ne viene fatta dagli adulti sulla base dei propri vissuti. Halfdan Ullmann Tøndel, autore anche della sceneggiatura, scruta i volti, dinamizza la scena scolastica rendendo corridoi, aule e scale dell’istituto quasi un contenitore organico di emozioni e vissuti anche pregressi, da animare e rivelare un po’ per volta. In questo senso gli inserti danzati hanno un approccio performativo che, per quanto possa sembrare estraneo alla densità della narrazione, lascia in realtà esplodere tutta la fisicità repressa nel serrato confronto psicologico e istituzionale in atto. Lo stesso vale per la risata isterica di Elisabeth e la soluzione finale nel cortile sotto la pioggia, che pure appare sin troppo dichiarata rispetto alla dinamicità di un film che insiste sulla sostanza di un cinema essenzialmente costruito come confronto drammaturgico di psicologie serrate.