Anche qui a Park City è arrivata la neve – sebbene non nelle forme della tempesta che ha sommersa la East Coast il week-end trascorso. Coperto da due pollici di leggera neve, l’aria secca dello Utah fa di questi posti il luogo ideale per sciare, il paesaggio ha assunto le forme canoniche del luogo immacolato che da due anni a questa parte le facevano difetto. A far da contraltare all’immagine da cartolina delle colline imbiancate, provvedono i film che quest’anno in particolare sembrano concentrarsi sul tema della morte. E’ questa l’istantanea con cui si apre il film scelto per dare il lancio al festival. Other People – racconto dell’ultimo anno di vita di una madre riletta partendo dalla fine – è un’innocua commedia che riprende il linguaggio della sit-com combinandolo con un protagonista gay e con un tema tragico, la malattia vista nella sua fase terminale. Il film cavalca un po’ pigramente il successo ottenuto lo scorso anno da Me and Earl and the Dying girl, vincitore del premio del pubblico e della critica (il cui titolo italiano Il peggior anno della mia vita si adatterebbe bene anche a questo film). Molto più interessante, provocatore ma anche capace di strizzare l’occhio al pubblico, è Swiss Army Man, dove Paul Dano, nei panni di un Robinson Crusoe disperato, scampa a una morte sicura grazie all’arrivo sulla spiaggia di un cadavere che nasconde dei poteri insospettati. Il morto è interpretato da un Daniel Radcliff in grande forma. Il suo personaggio sta a metà strada tra il candore del bambino che scoperchia la verità nascosta dietro i comportamenti più banali e la crudeltà della bambola che impietosamente mette a nudo l’ipocrisia della società. Oltre a una comicità tanto diretta quanto politically uncorrect, l’areofagia del cadavere su cui la stampa americana si è soffermata, Swiss Army Man nasconde un cuore romantico e sentimentale. L’opera prima di Daniel Kwan e Daniel Scheinert vuole essere una piccola favola nostalgica verso tutto quanto ci lasciamo alle spalle come individui nel percorso di crescita e integrazione sociale.
Il vero fulcro però della riflessione sulla morte arriva da due film incentrati sulla stessa storia, quella di Christine Chubbeck, reporter di una piccola stazione a Sarasota chenel 1974 si è suicidata in diretta. L’uno è Kate Plays Christine, il documentario diretto da Robert Greene, montatore di tanto cinema indipendente. L’altro –semplicemente Christine – è una finzione concepita da Antonio Campos, il regista di Afterschool e Simon Killer. I due film sono in qualche misura complementari, anche se completamente autonomi. Antonio Campos, grazie a un’interpretazione davvero notevole di Rebecca Hall, compone un ritratto intimo di una donna e del contesto di una piccola stazione televisiva di provincia. Il dramma di Christine è sapientemente strutturato secondo un crescendo il cui finale è noto e inevitabile. Così concepito il film è la storia di una disillusione sentimentale e professionale vissuta da una donna che si sente inadatta all’ambiente in cui vive, mentre forse è semplicemente troppo integra e naif. L’unico appunto che si può condurre ad un film che conferma il talento solido del suo regista è quello di essere troppo costruito e di lasciare così poco spazio allo spettatore; numerose scene spiccano però e restano nella memoria, come il dialogo rivelatore tra Christine e l’imprenditore che ha da poco acquisito la piccola catena televisiva o quelle in cui la donna anima due pupazzi per la gioia dei bambini malati in un ospedale. E’ qui che Rebecca Hall, modulando la voce su tonalità più dolci, fa sentire il timbro di quella Christina fragile e profondamente umana di cui il film vuole essere un omaggio.
Il film di Robert Greene segue invece passo dopo passo il lavoro condotto da Kate Lyn Shell per impersonare Christine, dal suo percorso a cambiare pettinatura e colore della pelle fino agli incontri con i familiari della donna e i suoi colleghi di lavoro. Il primo livello su cui il film dispone le sue carte è quello relativo al senso della ricostruzione. Che cosa significa recitare quando il punto di riferimento è una donna morta tragicamente. E ancora che cosa succede quando si prova a guardare nell’abisso che si nasconde nell’atto di impersonare un altro, di assumerne le spoglie fino a far credere che lo si è davvero. Dichiarandosi sempre come una ricostruzione, anche quando imita la grana del footage, il film preserva l’immagine della donna morta e al contempo cerca di recuperarne la memoria. Nonostante il suo eccesso di artificialità – esaltato da un montaggio che lavora sulla decostruzione– il film si ripiega a mettere in discussione l’atto stesso della documentazione. Nonostante Christine lo avesse chiesto, non esiste una registrazione del suicidio in diretta, probabilmente perché i proprietari della catena televisiva non hanno mai voluto renderlo disponibile. Questa assenza della scena madre sposta il discorso su un altro piano: l’atto del preservare la dignità della donna diventa per l’attrice che cerca prove a cui ancorare la sua interpretazione una sorta di scacco irreparabile ma anche il simbolo di quell’oblio che Christine stessa ha sempre paventato. Le persone dimenticano tutto – dice uno degli intervistati nelle prime scene del film. E in fondo anche la morte più tragica non può ribaltare questa sentenza.