La saga di Rocky sposta la sua traiettoria da Balboa a Creed (naturalmente non Apollo, seppellito nel quarto episodio dai colpi sovietici di Ivan Drago, ma il suo figlio naturale, Adonis) e riprende incredibilmente vigore. Sebbene in apparenza relegato a un ruolo secondario, di puro supporto (più morale, oltretutto, che materiale; più da motivatore che da allenatore), lo Sly dolente di Creed – Nato per combattere si prende la scena a più riprese e si rivela un candidato serissimo per l’Oscar quale migliore attore non protagonista, che molti ritengono essere finalmente alla sua portata, in attesa di conoscere le decisioni imperscrutabili dei signori dell’Academy Awards. Normale chiedersi a che punto eravamo rimasti, ripensando all’epopea del mancino di Philadelphia; dopo Rocky IV (del 1985), il tentativo di ridare fiato alla storia, richiamando il regista dell’esordio (John G. Avildsen) dopo tre direzioni consecutive di Stallone, era naufragato nell’eccesso di sentimentalismo di Rocky V. Mentre nel 2006, con Sylvester nel triplice ruolo di sceneggiatore/regista/interprete, Rocky Balboa aveva rappresentato il canto del cigno, un ultimo memorabile acuto (sia pure con un plot altamente improbabile) che sembrava aver messo una pietra tombale su una vicenda che nemmeno la proverbiale forza di volontà del protagonista poteva resuscitare. E invece l’impresa riesce al cineasta afro-americano Ryan Coogler (apprezzato per Prossima fermata – Fruitvale Station) con un cambio di prospettiva esemplare: l’ombra di Balboa resta fondamentale, ma celata dentro un geniale gioco a nascondino che maschera per buona parte del film le intenzioni del regista e impedisce di capire non a che conclusione arriverà (quella è scontata fin dal principio) ma in che modo, attraverso quale percorso, con quali invenzioni narrative.
In scena va dunque la storia di Adonis, figlio illegittimo di Apollo, riscattato da una vita di orfano abbruttito da affidi senza futuro da parte della moglie del padre naturale (morto prima della sua nascita), che infine lo adotta, lo cresce negli agi a Los Angeles, lo ama, lo fa diventare uomo. Una persona realizzata nel lavoro, che tuttavia sente bollire dentro sè il sangue di un genitore che non ha conosciuto e dalla cui grandezza pugilistica è schiacciato. Allora, l’antico rivale, poi sodale di Apollo, Rocky Balboa, diventa l’ancora di salvezza, il trampolino a cui affidarsi per tentare l’impossibile. Quando Rocky compare nella storia, tutto pare fermarsi: è una maschera bloccata in una paresi che dà la sensazione di essersi allargata rispetto al passato, perfettamente in linea con la figura imbolsita. Ma lo sguardo è straordinario, con Stallone che lo rende simile a quello di un cane abituato ai colpi della vita, che attende stoicamente l’arrivo del prossimo, perfettamente consapevole che ci sarà, anche se non sa da dove aspettarselo. La grandezza del settantenne Sly nel film si concentra in quello sguardo, l’unica cosa mobile in un corpo che va al rallentatore, con un’impressione di lentezza accentuata da una parlata biascicata, trattenuta, fiaccata dal tempo. Eppure capace di trasmettere l’essenzale ad Adonis, condensandolo nel mantra: “Un passo alla volta, un pugno alla volta, una ripresa alla volta”, valido sul ring come nella vita. È un film con parecchi difetti, Creed: la regia di Coogler, alle prese con un monumento, è forse meno sicura che altrove; l’andamento un po’ troppo discontinuo; certi snodi narrativi un po’ frettolosi, c’è parecchia auto-referenzialità. E non manca (non è mai mancata nel corso della serie) una dose importante di retorica che talvolta appesantisce lo svolgimento, qui peraltro ben bilanciata dalla freschezza connessa alla recitazione di Michael B. Johnson e di Tessa Thompson. Ma è anche un film che emoziona senza mezze misure, impreziosito da riprese di boxe meno convenzionali di quanto ci si potesse aspettare, con locations valorizzate al massimo e uno dei migliori Stallone degli ultimi vent’anni, almeno alla pari con quello, pure stanco e disilluso ma egualmente indomito, di Cop Land.