In & Of Itself: l’illusione dell’identità nella performance di Derek DelGaudio

Lei non sa chi sono io! O per meglio dire: io non so chi sono io. In & Of Itself (letteralmente: fra sé e sé) è il one man show di Derek DelGaudio, prestigiatore e performer che, con la regia dell’autore, burattinaio e interprete Frank Oz (anima dei Muppet e regista della Piccola bottega degli orrori, attore in The Blues Brothers e Una poltrona per due, voce originale di Yoda in Star Wars… insomma, uno che di genere fantastico, senso del racconto e ironia se ne intende), ha conquistato il pubblico newyorkese off-Broadway con questo spettacolo di magia, ma non solo, interamente incentrato sull’illusione dell’io. Il singolare atto unico ha avuto una tenitura record (più di 500 repliche al Daryl Roth Theater di Union Square, dopo un debutto altrettanto trionfale sulla West Coast), ed è stato un must see imperdibile, almeno a dar credito ai frequentatori di Tannen’s, il più vecchio negozio magico della Grande Mela, ma anche a legger le recensioni entusiastiche della stampa, a partire dagli endorsement prestigiosi e il fenomenale passaparola (fra il pubblico fanno capolino, nella versione TV, Marina Abramovich e Bill Gates). Chi non ha potuto assistere dal vivo a questo spettacolo non facile da classificare ad alta dose di coinvolgimento, può ora sbirciare dal buco della serratura, attraverso l’original di Hulu, piattaforma americana di non facilissima accessibilità per il pubblico italiano, che ha appena messo online una versione girata e montata di questa divagazione, interiore e interattiva, su identità e stupore. E avere un riflesso di quello che ci manca, uno spettacolo dal vivo. Derek DelGaudio è un perfomer californiano che, a dispetto del nome e delle origini, nel personaggio – che si racconta autobiografico – di questo spettacolo, si presenta sul palco – pallido, un filo sovrappeso – introspettivo, tutt’altro che solare, anzi quasi malinconico, comunque interrogante e trafitto di pause, una sorta di novello Amleto che, nella suo incedere dubitante e socratico, racconta storie e parti di sé piene di domande e di pesi, spazi vuoti e non detti, in cui la magia si inserisce come potere e illusione al contempo, momento di forza, ma anche luogo del pericolo e della sfida, fantasma e insieme rivalsa, scommessa di un altrove. 

 

 

Gli spettatori, nel pre-show, sono accolti nel foyer da una parete di biglietti stampati, tutti diversi, che riportano un’identità convenzionale o fantasiosa nella forma “I am a…” seguito da una possibile etichetta, tantissime singole possibilità fra cui decretare per gioco la propria unicità (scelga una carta, ingiunge il prestigiatore assente…). Dunque si tratta subito, per scherzo ma non troppo, di una decisione esistenziale, di un mettersi in gioco, di un interrogare la propria, d’identità. Il tono dello spettacolo, ancor più per il senso americano della magia (prevalentemente una sequenza rapida e scoppiettante, un climax di illusioni potenti e visuali), è subito controintuitivo, con Derek che si dilunga nel raccontare la storia di un uomo, tornato dalla navigazione e dalla guerra, solo e perduto, che, in cerca di adrenalina, senso e riscatto, decide di votarsi a uno sport assai pericoloso: la roulette russa. Il “click” di quella lotteria di morte risuonerà, suspense sottilmente lugubre, metafora di rischio e autodistruzione, come ritmo sotteso, tensione di fondo dell’intero spettacolo. Il Roulettista, Derek lo dice in modo abbastanza chiaro (per quanto sconvolto da questa consapevolezza), c’est moi. Dunque non solo e non tanto una sequenza di miracoli (lo spettacolo, rispetto alla durata, contiene tutto sommato pochi effetti, anche se molto forti e perfettamente incastonati nella drammaturgia), ma assistiamo alla costruzione di un’attesa e di una tesi che, attraverso uno storytelling apparentemente divagante ma fortemente coerente e ricco di rimandi interni, si presenta come un gioco di specchi, un invito alla riflessione, un modo per caricare gli oggetti (scenici, personali), i simboli che prendono corpo e transitano sul palco (e su esso si dissolvono o sfidano le nostre percezioni), delle proprie storie e delle emozioni più personali. In uno spazio astratto ed essenziale quasi magrittiano (bacheche/quadri che espongono i pochi indizi chiave della narrazione sulla parete di fondo, un tavolo e una sedia), con una narrazione evocativa e ricca di rimandi cinematografici in filigrana (dall’Orson Welles della Storia Immortale al Cacciatore/Taxi driver, dal naufragio di Cast Away al mattone dorato che sembra sottratto alla yellok brick road del Mago di Oz, qualcosa di Truman show e sprazzi di Peter Pan…), lo spettacolo di DelGaudio, lavorando su un forte coinvolgimento del pubblico in questa ricerca di sé – uno nessuno e centomila – fin da subito si e ci interroga sul dimensione stessa della performance. In un meta-spettacolo in cui ci si domanda quanto siamo dei narratori inaffidabili di noi stessi, fra menzogne, più o meno consapevoli, e sospensione d’incredulità, che operiamo nell’affidarci alle storie nostre e altrui. Scopriamo così che il diario di navigazione della nostra traversata è fatto anch’esso di resoconto e di racconto, di osservazione e d’invenzione, di quello che riusciamo a vedere e di quello che creiamo con l’abitudine e con l’immaginazione, ma non per ciò è meno vero.

 

 

È interessante come questa indagine sull’identità ci conduca poi in “the time between dog and wolf”, quell’ora in cui non è facile distinguere chi abbiamo di fronte, il Bene dal Male (cane o lupo?). È in quei momenti liminari che può essere illuminante, e decisivo, voltarci di spalle e confrontarci con la nostra ombra. Il fascino della dark side è raccontato con una dimostrazione di gambling, che bene esemplifica, con un mazzo di carte apparentemente mescolato nel caos ma controllato al millimetro, il confine labile che separa il mago dal baro, e l’attrazione, fatale e diabolica per chi ha sviluppato l’abilità di governare il gioco d’azzardo. In questo addentrarsi nelle zone oscure, al di là della seduzione narcisistica della tecnica, DelGaudio sonda lo spazio oneroso del segreto, che ha un suo peso e una sua potenza: nascondere parti dei sé come strategia di sopravvivenza, l’omissione come meccanismo di difesa dagli ingranaggi crudeli della macchina sociale. Ecco che il comandamento proverbiale del prestigiatore di non svelare il trucco assume un risvolto inatteso: che cosa posso/voglio mostrare dell’immagine di me, come quello che nascondo determina il rapporto con l’altro? E ancora: attraverso una figura simbolica stereotipica della magia, come quella dell’elefante chiamato ad apparire (Hyding the Elephant s’intitola un bel libro di storia della prestigiazione) e alla vecchia storia dell’illusione metonimica dell’animale al buio, percepito da sei uomini in altrettanti modi diversi a seconda dalla parte che toccano (il serpente della proboscide, il tronco d’albero della zampa, l’enorme farfalla delle orecchie…), il narratore si interroga sul punto di vista, mai raccontato, del povero pachiderma. Infastidito dai curiosi toccaccioni, costretto a oscillare fra il riconoscersi in una creatura mitica, ircocervo unico e speciale fantasticato nella penombra, e la sintesi prosaica di sé, in piena luce.

 

 

Ma, s’è detto, la performance di DelGaudio è interessante soprattutto per come, programmaticamente e con astuzia, rompe la quarta parete, essendo costituita da alcuni decisivi andirivieni fra palco e pubblico, dandosi come esperienza, portando dentro psicologicamente in maniera tangibile lo spettatore. È in queste interazioni che il mago produce le manipolazioni più interessanti: l’idea di un oggetto che sparisce dal palco per finire a un angolo strada, proietta lo spettacolo in un altrove (im)possibile, che va oltre e fuori dal teatro; lo spettatore etichettato “Domani” che, in una sorta di staffetta con uno spettatore detto “Ieri”, è chiamato a immaginare il finale dello spettacolo che, invitato ad allontanarsi dalla scena, vedrà solo nella replica del giorno dopo, avendo il compito di vergare con l’immaginazione quel “diario di navigazione” la cui pagina bianca gli viene affidata: un vero viaggio nel tempo e un’istanza a completare la storia con il proprio contributo; e, ancora, uno spettatore a caso che, chiamato ad aprire una lettera fra tantissime, si ritrova sul palco a leggere un messaggio personale di una persona amata, in una corrispondenza “impossibile” eppure verissima che, con una certa grana grossa di matrice televisiva (alla C’è posta per te, per intenderci) produce uno dei picchi emotivi più veri e insieme più artificiosi (e certamente discutibile su un piano etico/estetico) dell’intera messa in scena. Ed infine è il prestigiatore, ma anche il Roulettista, che scende fra il pubblico, con una sorta di agnizione, basata sulla loro scelta iniziale, nel pre-show, che tocca e riconosce un pubblico suggestionato e rapito, che si sente chiamato quasi per nome, uno a uno, e ha l’illusione fortissima di andare oltre lo specchio. «La fantasia e la realtà sono due scrigni serrati, ognuno dei quali contiene la chiave dell’altro» leggevo tanti anni fa in esergo a un libro per maghi. La performance di DelGaudio, con qualche eccesso di retorica in alcuni momenti ma con grande senso della spettacolo, è un’ottima messa in scena di questa istanza labirintica, che racconta chi siamo, l’essenza di ogni narrazione e il segreto di ogni bravo illusionista. Click.