In Vita di Luigi Tenco Aldo Colonna racconta una prepotente ricerca di identità

Il 27 gennaio scorso ricorrevano i 50 anni dalla morte di Luigi Tenco. Bompiani ha mandato in libreria da pochi giorni Vita di Luigi Tenco (pag.320, euro 12) di Aldo Colonna. Una biografia informata, densa e appassionata. Colonna racconta la vita di un personaggio iconico e scomodo, fiero e disperato, coerente fino in fondo, dalla forte personalità. Ne vien fuori non solo il ritratto del Tenco artista ma anche la storia della sua parabola esistenziale, fino alle circostanze, analizzate nel dettaglio, della morte violenta. Questa nuova edizione, arricchita da un apparato iconografico che contiene alcune foto inedite, getta luce sul significato di alcune celebri canzoni, a lungo travisate. Ottima la discografia a cura di Enrico De Angelis, Michele Neri, Franco Settimo. Per gentile concessione di Bompiani  pubblichiamo un estratto dal capitolo L’artista.

 

 

Uno dei punti più dibattuti su Tenco è costituito dalla lacerazione che lo tormentava nel vivere una condizione di involontaria dualità: non ci si poteva esprimere in modo libero se si era inquadrati nei meccanismi dell’industria che, per quanto liberale, fa i conti alla fine con i propri bilanci e non con le aspirazioni di rinnovamento di un cantante. Forse Tenco riuscì, nonostante tutto, tenacemente, ad essere libero, ma per questa libertà fu costretto a pagare uno scotto sproporzionato. In questo c’è il primo segno, chiaro, rivoluzionario, di novità che Tenco introduce in un mondo per definizione leggero: un prepotente bisogno di affermazione, una prepotente ricerca di identità in un contesto ridanciano dove l’unico obiettivo rimane il raggiungimento del successo. E, a suo modo, Tenco cercò il successo, ma non come mezzo per accumulare capitale, al contrario per acquistare più vaste platee al discorso di una canzone che parlava di problemi reali, comuni a tutti, di tematiche sociali crude e urgenti, di una canzone che si facesse veicolo e costituisse così, anche, un fatto artistico. La canzone, con lui, si riallineava ad altri modelli culturali, sottolineando la fragilità della canzonetta ed evidenziando un nuovo modo di essere cantanti con un mezzo che cominciava a essere legato direttamente al pubblico. Tenco rappresentò il punto di rottura con la musica industriale con l’apertura di una stagione diversa, certo ancora piena di contraddizioni al suo nascere ma viva, in un rapporto esclusivo con il pubblico che quella stagione avrebbe vissuto. Aveva bisogno, per il suo discorso, dei mass media; e tanto più ne aveva bisogno tanto più ne rifuggiva, disertando spesso serate, meeting musicali, apparizioni pubbliche. Cominciò a convincersi, e qualcuno dovette aiutarlo nella scelta, che per un progetto così ambizioso c’era bisogno di una grande ribalta. Nasce così l’idea di una sua apparizione a Sanremo, che lo vedrà comunque costantemente combattuto tra assenza e partecipazione: “Costretto a servire due padroni istituzionalmente nemici – il suo intimo ideale e il mercato della canzone, che è forse il più spietato di tutti – Tenco non ha resistito alla lacerazione.” Questa considerazione non poteva meglio definire il senso profondo del dramma. L’operazione di Tenco è gramsciana, di allargamento dei consensi; un programma, ripetiamo, ambizioso e gramscianamente in bilico tra “pessimismo della ragione”  e “ottimismo della volontà”. Ricercava nella musica popolare i motivi della sua innovazione. Nella copertina del suo primo lp c’era già, in nuce, traccia di questa ricerca: “Le mie canzoni vanno viste non tanto nel quadro della musica leggera o da ballo, quanto in quello della musica popolare. Il sentirle una di seguito all’altra, riunite in un lp, spero contribuirà a chiarire maggiormente questo punto, cui evidentemente tengo molto. Infatti io penso che al di là di un eccessivo conformismo nei testi poetici, al di là di fatture musicali più o meno di moda, la musica popolare resti pur sempre il mezzo più valido per esprimere reazioni e sentimenti in modo schietto, sincero e immediato.” 
 

Sicuramente, fra gli altri, era stato Gershwin a convincerlo della bontà di questa linea:“La grande musica del passato, in altri paesi, è sempre stata fondata sulla musica folkloristica. Questa è la più ricca fonte della fecondità musicale…” Tenco stesso stava preparando, poco prima di morire, un album di rielaborazioni (ne riportiamo a p. 238, la scaletta). La rivoluzione musicale di Tenco consiste nell’aver rotto gli schemi di una canzone che imputridiva in una palude di luoghi comuni; nell’aver quindi per primo cantato i fatti della quotidianità, nell’aver guastato gli schemi fissi della rima (cuore/amore) e nell’aver introdotto, nella canzone, un linguaggio discorsivo, parlato, dove emerge, per la prima volta, l’uso reiterato della congiunzione. Umberto Eco suddivide la canzone in due generi: da sottofondo e da ascolto. Sergio Liberovici asserisce che la canzone da sottofondo è uno strumento ignobile, potendo contrabbandare, grazie al tema musicale, messaggi qualunquisti. Tenco avverte di poter far parte, inconsapevole, di questa mistificazione; avverte di essere nel mezzo, tra una musica di consumo e una musica colta. È significativo, in questo senso, un episodio. Durante un concerto del Nuovo Canzoniere Italiano al Lirico di Milano, Tenco, nell’intervallo di un applauso particolarmente caloroso, sale sul palco molto emozionato e ripete in maniera ossessiva: “Sono una nullità, è la vostra la via da seguire…” (Tenco viveva in una sorta di “guado”. Una volta, alla guida della sua fiammante gt verde bottiglia, fu fermato dai lavoratori della rca in sciopero. Si fermò, cominciò a discutere con quelli delle loro ragioni e si vergognò della sua auto. Ci mancò poco che si mettesse dalla loro parte, contro i suoi stessi datori di lavoro.) Tempo prima Tenco aveva espresso le sue perplessità a Ivan Della Mea, incontrato fortuitamente alla Ricordi, col quale aveva trascorso delle ore, in un bar, a parlare del problema dell’impegno nella canzone. Si diceva frustrato, aveva come la sensazione di essersi venduto all’industria, ed elogiava l’interlocutore per il discorso che portava avanti col Nuovo Canzoniere. Della Mea lo rincuorò, in modo sincero, perché anche lui – disse – faceva un discorso importante, di rottura, nel suo àmbito. E non c’è dubbio che l’impegno di Tenco fosse genuino.

 

Con Dalida sulle scale del Casinò, 26 gennaio 1967, pomeriggio.

 

Le sue posizioni sono avanzate, più vicine al Settantasette che non al Sessantotto. Il Sessantotto, come qualcuno ha chiosato, lui non lo anticipa, lo supera, nel recupero di quello che oggi definiremmo, con un brutto termine, il privato; la sua attualità consiste nel presupporre la delusione e il ripiegamento su se stessi. Inoltre Tenco, al contrario del Nuovo Canzoniere Italiano, non scrive per pochi intellettuali, ma tende piuttosto ad affidare il suo messaggio ai canali del sistema; non c’è in questo alcuna contraddizione. Egli rompe con la tradizione enucleando un concetto di angoscia, di imponderabilità di un sentimento – l’amore – che sfugge a qualsiasi interpretazione razionale (“In un paese come il nostro dove l’amore gronda convenzione in ogni sua descrizione ufficiale, l’affermazione è suonata come una bestemmia – si riferisce a Mi sono innamorato di te –; ma se avessimo tutti un briciolo di coraggio, quanta verità scopriremmo in questa sincera dichiarazione”); sgombra il campo dalla falsa retorica dei presunti sentimenti patriottici di uomini in guerra e invece soli, esclusivamente, con la presenza incombente di una morte in attesa (La ballata del marinaio); ironizza sulla vacuità della moda ma sembra quasi anticipare che anche gli slogan, a volte, sono moda (La ballata della moda); sottolinea la piccolezza dell’uomo già smagato di fronte alle disillusioni eppure pervicacemente attaccato alla contraddizione di sogni che possano ancora tradursi in realtà (Il tempo passò e Il mio regno).
 

Le donne di Tenco sono facili (Isy), perché facile sia l’abbandono e indolore, almeno nei desideri, la separazione in un rapporto alla lunga inevitabilmente conflittuale; manifesta il disappunto, rabbioso, per un innamoramento non “giusto” (Guarda se io) eppure necessariamente proiettato alla definizione di se stesso la cui fine, sola, testimonierà la bontà dell’intuizione primigenia. Tenco inventa la protesta quando in Italia non si parla ancora né di Dylan né di Donovan né di Barry McGuire (Ognuno è libero, E se ci diranno; piena di echi, quest’ultima, di Fini e mezzi di Huxley); Cara maestra ironizza, ma a lettere di fuoco, contro il perbenismo che permette la guerra e le stragi (e, perché no?, anche quelle di stato). Ragazzo mio, scritta di getto, è l’ammonimento dato al figlio di Roy Grassi, uno dei suoi amici più assidui, di non ferire il padre il cui idealismo gli ha impedito di realizzarsi; è il discorso delle radici, in una parola il disprezzo per chi ha codificato, in schemi, atteggiamenti e comportamenti. Con La ballata della moda, una canzone sull’acqua blu, mette alla berlina le mode imposte dall’industria – e subito assimilate dall’utenza – facendosi, ancora una volta, anticipatore: è stato di moda negli Stati Uniti, ma specificatamente nel Texas, Brainwash, un analcolico blu che lascia la lingua dello stesso colore per almeno un paio di giorni; inoltre è di colore blu una bevanda della marca Gatorade. Ciao amore, ciao è il testo più elaborato, più rimestato di Tenco (per molti una pessima canzone ma Tenco, lo sappiamo, esaspera a volte la sua ricerca musicale a tal punto da rasentare la sgradevolezza; a nostro avviso un ottimo testo, anche in questo caso anticipatore di temi tuttora attuali e dibattuti come l’emigrazione, l’inurbamento, l’alienazione), e anche nella sua forma ultima dimostra, parlando di problemi un po’ più crudi di quelli espressi da Io, tu e le rose, la sua posizione di antesignano. Parlando delle sue possibilità diremo che la sua voce era molto ben guidata; aveva tratto suggerimento dall’impostazione data da Franco Franchi e ne aveva un controllo eccellente, tipico del suonatore di strumenti a fiato. Musicalmente, un talento straordinario, tutti gli altri erano da un punto di vista strumentale elementari.

 

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