Il 19 settembre 1955 un putsch militare mette fine al governo del generale Juan Domingo Perón costringendolo all’esilio. Rifugiatosi dapprima in vari Paesi dell’America latina, Perón si stabilisce, infine, nella Spagna del generale Franco, che lo accoglie, ma senza tributargli gli onori che l’argentino si aspettava. Prende casa a Madrid, in un appartamento al primo piano di avenida del doctor Arce, con la nuova moglie Isabelita e i suoi due cani, e da qui prepara il gran ritorno in Argentina. Da qualche tempo, nello stesso palazzo, al secondo piano, si è trasferita Ava Gardner, ormai sul viale del tramonto. Ha 38 anni e la sua carriera è quasi tutta alle spalle. È questo fatto reale alla base del romanzo Jardin blanc di Laura Alcoba (Gallimard, 2009, inedito in Italia), scrittrice francese di origine argentina. Ambientato nel 1960 – dal 6 gennaio alla primavera dell’anno successivo – non riporta gli episodi, passati alla storia, delle accese discussioni tra i due (Perón mal tollerava la vita da nottambula festaiola della Gardner e le sue telefonate alla Guardia Civil erano una costante), ma è piuttosto incentrato su tre solitudini, tre donne che hanno più di un punto in comune, in cui il passato e il presente si confondono. La prima donna è Eva Duarte che dall’oltretomba parla del declino di Perón, esiliato nell’appartamento da cui non si allontana mai: «Cosa ti è venuto in mente di andarti a cacciare in questo quartiere, amore mio? Questo angolo di Madrid non assomiglia a niente, questo palazzo lontano dal centro sembra (se mi permetti il paragone, non vederci nessuna malizia da parte mia) il terreno ideale per una sepoltura di prima classe. Il vantaggio, comunque, è che in circostanze del genere, nessuno può vederti.» È sempre lei a raccontare i suoi ultimi giorni di vita e soprattutto quello che è successo dopo la sua morte. Evita è morta di cancro qualche anno prima, nel 1952, nel fiore degli anni e venerata dal suo popolo. Milioni di persone rendono omaggio alla sua sua salma esposta in una teca di vetro per alcuni giorni prima che venga imbalsamata per diventare oggetto di un culto eterno. Il dottor Pedro Ara, uno spagnolo esperto nella tecnica dell’imbalsamazione, è incaricato del lavoro e lo fa nel migliore dei modi possibili.
Ma gli eventi precipitano e Perón è costretto a lasciare il Paese abbandonando, di fatto, il corpo dell’amata Eva che finirà per cadere nelle mani dei militari, verrà rinchiuso in una bara e spostato in continuazione per evitare che i sostenitori del generale si radunino e ricompattino intorno alle sue spoglie e, finalmente, spedito fuori dall’Argentina (si dice sia stato sepolto per anni in un cimitero milanese, sotto falso nome). Lo fa senza recriminazioni, ma con la forza e la lucidità che l’hanno caratterizzata in vita. Altrettanto lucida e disincantata appare la seconda donna, Ava Gardner, nonostante i numerosi cocktail («il sol y sombra delle cinque in punto, quando il giorno inizia a cedere, un po’ di cognac e di assenzio, è sicuramente meno deprimente di una tazza di tè»), in un flusso di coscienza rivelatore di un atteggiamento proto-femminista. È consapevole di essere stata considerata solo un bel corpo, ma è stata al gioco: «La contessa scalza, il mio film più bello, ricordi cosa avevano scritto sulla locandina, the World’s Most Beautiful Animal, ero furibonda, ma è solo uno slogan pubblicitario, è tutto quello che riuscivano a dirmi […]». Rievoca i tanti turbolenti amori (da Frank Sinatra a Artie Shaw, ma anche il torero Dominguín e Walter Chiari) che l’hanno considerata solo come un bell’oggetto da esibire. A queste due donne realmente esistite, se ne aggiunge una terza, fittizia, di nome Carmina. Anche lei è in fuga e si rifugia a casa della sorella Consuelo, al pianterreno del palazzo dove diventa la confidente di Ava Gardner, o meglio la testimone muta dei suoi sfoghi quotidiani. Non c’è dialogo tra le due, solo un lungo soliloquio della star hollywoodiana. Carmina fa, però, sentire la sua voce nel diario che tiene e in cui racconta la sua storia.
A mano a mano che la storia procede, Ava e Eva, la bruna e la bionda, finiscono per diventare le due facce di una stessa medaglia, accomunate non solo dalla similitudine del nome, ma da una forza che si irradia dal loro essere e che soggioga tutti, una sorta di luminescenza soprannaturale, come nota lo stesso Perón parlando della Gardner: «La sua pelle ha questa strana trasparenza, questa luminosità che aveva la mia cara Evita». Da una parte c’è un corpo svuotato per essere imbalsamato, dall’altra un corpo che sta perdendo il suo splendore dopo essere stato fatto a pezzi per tutta la carriera («mi hanno accuratamente smembrata»), una in attesa del suo monumento da morta, l’altra che ha posato per lo scultore Joseph Nicolosi nel momento di massimo splendore (per il film Il bacio di Venere). Il titolo fa riferimento alla passione della Gardner per i fiori bianchi. È lei a chiedere al giardiniere di piantarne quanti più possibile per ottenere questa sorta di ottundimento dal mondo circostante che finisce per accentuare l’isolamento, nello spazio e nel tempo, di questi esseri alla deriva. «Mi sembra che più il giardino è bianco, più i suoni fanno fatica a farsi strada in avenida del doctor Arce», osserva Carmina, e sembra di sentire riecheggiare Rumore bianco di Don De Lillo quando dice «Guarda come è tutto ben illuminato. Questo posto è sigillato, conchiuso in sé. È senza tempo».