Agnès Varda ha trovato nel mezzo cinematografico una spiaggia sicura in cui lasciare incise tutte quelle memorie vissute in prima persona che il tempo avrebbe cancellato. Considerata una delle cineaste più influenti dello scorso secolo, Varda ha lavorato fino a pochi mesi prima della sua scomparsa nel marzo 2019 al film-testimonianza Varda par Agnès. Raccontandosi dolcemente nel suo ultimo lungometraggio, lavoro ibrido e autobiografico, l’artista dichiara che il suo rapporto con il cinema cominciò perseguendo la sua curiosità (“io ho gli occhi curiosi!”), che ben presto si trasformò in una necessità. Il cinema di Agnès Varda racconta continuamente nelle sue forme sempre nuove e nelle sperimentazioni più diverse questo incontro tra l’autrice e il pianeta delle immagini in movimento, nel quale ha potuto sempre far convivere “l’ispirazione, la creazione e la condivisione, poiché non si fanno i film per guardarli da soli” (Varda par Agnès). Al suo cinema MUBI dedica un personale composta da circa venti opere, attraverso le quali si può ritrovare lo spirito di questa guerriera del cinema e seguirne il lungo percorso attraverso le sue immagini, eterne sorgenti d’amore e di vita. L’illuminazione si accese durante le riprese di La pointe courte, il primo film di una Varda ventiseienne, girato nel 1955 nella piccola città portuale sul Mediterraneo dove era cresciuta, Sète. Film leggendario per essere considerato (anche per motivi cronologici) da alcuni il primo film della rivoluzione Nouvelle vague, e a cui André Bazin dedicò più di un encomio sul quotidiano Le Parisien Libéré nel 1956 definendolo “un film miracoloso, per il fatto che esiste e per il suo stile”. (In apertura un’immagine tratta da Les plages d’Agnès).
Questa ambiziosa opera prima, venne prodotta, scritta e diretta dalla stessa Varda, che avvalendosi dell’amichevole partecipazione di un giovanissimo e mai visto sul grande schermo Philippe Noiret e della misteriosa Silvia Monfort (attrice che aveva lavorato qualche anno prima già in La conversa di Belfort di Robert Bresson, e successivamente anche in L’aquila a due teste di Jean Cocteau), riuscì tra la fine dell’estate del ’54 e le prime settimane del ’55 a girare le immagini di questo poetico manifesto della liberazione di un cinema dei giovani, pieno di “cose inutili ed essenziali, come le parole che ci sfuggono in sogno”, come ci ricorda Bazin. Addentrandosi poi negli anni ’60, Varda compone Il verde prato dell’amore, spietato film d’amore, saggio sul modern love del periodo delle liberazioni, favola femminista saturata in cui l’idea dell’amore più classico, quello familiare e patriarcale, viene reso tragicamente uno spazio in cui la felicità, appunto, non è solo che un pretesto per un pensiero egoistico e individualista. Il film venne premiato nel 1965 con l’Orso d’argento al Festival di Berlino, e resta forse un caso raro nella storia del cinema in cui una vera famiglia si presta al gioco della finzione cinematografica: i protagonisti del racconto infatti erano ai tempi marito e moglie (Jean-Claude Drouot e Sandrine Drouot) e i due bambini che ne accompagnano le passeggiate e i picnic nel bosco erano i loro veri figli.
Qualche anno più tardi, precisamente nel 1968, Varda parte per gli Stati Uniti, dove girerà praticamente in contemporanea le scene del suo film americano Lions Love e si ritroverà immersa in Black Panthers. Quest’ultimo, di recente restaurato in una nuova splendida forma, è un vero e proprio reportage del lungo viaggio della Varda nella California dei primi anni del movimento rivoluzionario Black Panthers Party, che lottò tra il 1966 e i primi anni ottanta per la liberazione e per i diritti della comunità afroamericana. Seguendo le manifestazioni a Oakland per la liberazione di Huey Newton, uno dei fondatori del movimento, il film ci porta all’interno dell’organizzazione di uno dei più importanti manifesti di lotta popolare che la storia statunitense possa ricordare. Storia, viaggio e militanza politica si incontrano e si scontrano in questo incredibile trattato filmico, attraverso il quale Varda riportò all’Europa le immagini reali di un periodo importantissimo per la difesa dei diritti umani.
Le caratteristiche di trasportabilità e di agilità dei mezzi di riproduzione digitali dei primi anni 2000 hanno spinto Agnès Varda ad allontanarsi sempre maggiormente dalle forme più tradizionali, dando vita alla creazione di tre opere speciali: La vita è un raccolto, del 2000), Les plages d’Agnès (2008) e Agnès de ci de là Varda (2011). Queste tre opere sorprendenti sono il riassunto della vita dell’autrice, autoprodotti, scritti e filmati dalla stessa Agnès Varda, che imbracciando la sua videocamera insegue le sue fantasie e i suoi ricordi nello spazio di diversi anni. Amici come Chris Marker, Manoel de Oliveira e Jane Birkin, o persone incontrate nelle sue diverse traversate della Francia vengono tramutate e conservate direttamente nelle immagini, in fotografie (come accadrà nell’ultimo Visages, Villages, film-performance realizzato insieme all’artista e fotografo JR), in mummie immortali dalle quali ricava delle storie, ed è proprio in queste relazioni (o peripezie realistiche) che Varda ritrova le ombre e le sensazioni vissute durante tutto il suo lungo percorso artistico, rievocate sotto forma di queste tre opere autobiografiche magistrali. Dalla sua prima opera, fino agli ultimi documentari multiforma, la Varda ha costantemente messo in scena la sua personale ricerca di raccontare la realtà rompendo la costruzione del racconto stesso in cui essa è rappresentata. Ogni singolo film o cortometraggio che compone la sua vasta filmografia dimostra e dichiara che “il cinema è un’esperienza eccitante e pericolosa, perché cerco di trovare una scrittura vivente. […] Io non voglio mostrare, ma trasmettere la voglia di vedere”, come disse nel dicembre 2088 in un’intervista a Le Figaro.
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