Diversi anni fa il New York Times dedicò un gustoso gruppo di discussione online al tema You are a New Yorker when…, scatenando in forma creativa e stimolante lo spirito identitario, ironico e d’osservazione del suo lettorato, che provava a raccontare, per brevi aneddoti, fulminanti osservazioni e apodittici comandamenti – dalla quotidianità ai massimi sistemi – quello che, in pratica, poteva sussumere in poche righe il vero spirito della città. Quella stessa “newyorkesità” Martin Scorsese sostiene ammanti della sua irriducibile atmosfera anche le scenografie più neutre di qualunque film, perfino il più anonimo, ambientato in questa città. Un inno a questa quintessenza misteriosa, seducente, poliedrica eppure immediatamente percepibile, è ben rappresentato, con esiti geniali, da buona parte della filmografia del regista italoamericano, e non sembra perciò un caso che l’autore di Fuori orario e Taxi Driver, Re per una notte e L’età dell’innocenza, Toro scatenato e The Wolf of Wall Street, scelga dunque per la seconda volta (dieci anni fa fece un documentario per HBO che s’intitolava Public Speaker) di incontrare sotto i riflettori l’amica Fran Lebowitz, esempio assoluto, autorità inappellabile e inarrestabile, esilarante e ficcante in questa specifica materia.
In questo Pretend It’s a City (in italiano Fran Lebowitz: una vita a New York), docuserie in sette puntate, di più di mezz’ora ciascuna, prodotta da Netflix, la narratrice settantenne con il blocco dello scrittore dal lontano 1994 (lei lo chiama “blockade”, sorta di embargo/assedio), l’oratrice brillante che ama i party ma mal sopporta l’altrui seccante presenza negli spazi pubblici, è protagonista di un dialogo che si dà in forma di complice ascolto del grande regista (e, in subordine, di Alec Baldwin, Toni Morrison, Olivia Wilde e Spike Lee, che tra gli altri si alternano, attraverso pezzi d’archivio, e frammenti di ospitate TV), confidenza fra amici, gioco delle parti. Il look distintivo di Fran (uniforme jeans, blazer scuro, camicia con gemelli spiraliformi disegnati da Calder), il suo stile unico, fusione di personalità e understatement, la sua voce affabulante, witty e idiosincratica di fumatrice consapevole e mai pentita (“I have two main activities in life: smoking and plotting revange”), l’incedere peripatetico e il pensiero divagante, curioso e controcorrente di questa newyorkese DOC (proprio nella misura in cui è cittadina d’elezione), divengono il soggetto di queste conversazioni, legate da sottili ma decisivi fili tematici (denaro e real estate, talento e arte, mezzi di trasporto e immagini in movimento, libri, denaro, salute e mortalità, fine del mondo, cucina, sport, e ancora libri; Lebowitz ne possedeva più di 10000).
Il tutto è connesso e racchiuso nel tono pungente e aneddotico, cinico e affettivo insieme, di questa intellettuale sui generis («Making distinctions is my profession»), un po’ critica e un po’ stand-up comedian, opinionista e poetessa urbana («I have no power but I am filled with opinions»), che ha scritto per Interview, la rivista di Andy Warhol e ha ascoltato e conosciuto Charles Mingus e Duke Ellington, incrociato Cary Grant in Madison Avenue, assistito a un incontro di Muhammad Ali, stretto amicizia con Tony Morrison. Taxista e donna delle pulizie (ma mai cameriera) per sbarcare il lunario, indifferente allo sport e poco predisposta a fare soldi (in un contesto non certo economico), assidua bibliofila (fino a baciare un libro che cade a terra), collezionista di sguardi obliqui e risvolti comici di ogni cosa, misantropa affettuosa («I’m not a hostess. I’m a prosecutor»), intollerante verso ogni distrazione tecnologica, mercificazione dell’arte, pigrizia di pensiero, e sprezzante verso ogni declinazione turistica dell’esistenza. Se l’intolleranza per la folla le fa fare giri dell’oca per arrivare a Times Square, magari per rifugiarsi in un teatro, mal sopporta gli aerei e i cinema (se non quando erano ancora sinonimi i primi di lusso e i secondi di aria condizionata, spazi esclusivi e non concentrati di molesta umanità), quella con la città nel suo insieme, della quale si propone di fare il sindaco notturno, è una storia di amore e odio, apologia dissimulata e perenne insoddisfazione di una cittadina «in a costant state of rage», ma rinnovata attenzione, a ogni passo. Perché la gente viene qui? Che cosa c’è in questa città? Passeggiando sul modellino dei cinque boroughs (concepito come attrattiva turistica per l’Esposizione Universale del 1964 dal padrino pianificatore Robert Moses posseduto dall’hybris, e custodito al Queens Museum of Arts), Lebowitz costruisce la sua teologia negativa, in cui inscrive la sua fuga dalla provincia verso le mille luci di New York, e con geniale ribaltamento di prospettiva dichiara: non è tanto quello che c’è qui, ma quello che non c’è. Con sintesi icastica: «Wherever you’re from, it’s not here».
Decisamente interessante è poi che il suo essere ebrea e lesbica non siano mai messi in primo piano, bandiera o rivendicazione, né attraverso il vittimismo e né in forma di orgoglio, eppure permeino il suo sguardo e la sua prospettiva fortemente e fieramente minoritaria, e inattuale (fra l’altro la signora non ha computer né cellulare, ma «se non ho Twitter e Instagram non vuol dire che non so che cosa sono, ma non li ho proprio perché so che cosa sono»). La descrizione della grande città come un concentrato di omosessuali infuriati, in fuga da dove avevano un’esistenza negata e frustrata, è un’immagine esilarante e illuminante (autorironica), il suo rifiuto di assurgere a leader simbolico LGBT («non sono mai stata un’attivista») è perfettamente esemplificato, in maniera translata, da una frase che dedica ai libri e che bene sintetizza la sua lotta contro il cliché, il rapporto con il sapere e l’apertura vera al mondo di una lettrice onnivora (fino alle targhe nascoste in piena vista sui marciapiedi della metropoli), esploratrice inesausta alla diversità: «A book isn’t supposed to be a mirror. It’s supposed to be a door!». Così, ascoltare il potere giocoso e ribaltante della parola di questa provocatrice dello spirito, è un balsamo dell’anima in tempi di pensieri preconfezionati e spenti (copia-incollati), e anche se non su tutto siamo d’accordo (per amor di battuta, anche le sue argomentazioni non sono certo il regno della coerenza), è proprio nello scarto, nello spiazzamento e nella differenza, non nello specchiarci regressivo dell’identificazione, che ci affacciamo alla soglia di territori ignoti. Roba da correre a prenotare il biglietto per New York, per quando si tornerà a viaggiare per davvero. Per ora, molto lebovitzianamente, ci accontentiamo di farlo sul divano di casa, con un buon libro o una serie come questa.