Ancora una volta, Jean-Luc Godard, ancora una volta, dopo avere interrotto il pacifico godimento del (suo) cinema con un suo gesto opponente e ostruttivo ha impedito i futuri delle sue visioni, ha spezzato ogni incantesimo, riportando, con la sua morte, il cinema dentro una realtà totale e assoluta infilmabile, secondo Bazin, ma che come diceva lui, merita di essere filmata. Il gesto di questa scomparsa, di cui ancora si sentono gli effetti, è l’uscita di scena e per noi suoi spettatori è il risveglio nella consapevolezza della sua assenza, del suo cinema che assomiglia(va) ancora oggi e sempre ad un work in progress nel quale sembra sconosciuta l’idea di finitezza, tanto i suoi percorsi aprono altri orizzonti in un crescere di superfetazioni teoriche e visive e di immaginari letterari. È forse questo succedersi infinito di cinema, di immagini postume e coeve che a loro volta si aprono in una serie ininterrotta di scatole cinesi, a produrre una proliferazione di riflessioni e scritti nei quali si lavora ancora, criticamente, ripercorrendo i labirinti godardiani, i suoi enigmi e le sue indispensabili illuminazioni. È in questa ottica che a Napoli si svolge e si sviluppa Godard #anno 1, una interessante retrospettiva curata da Armando Andria, Gina Annunziata, Alessia Brandoni, Fabrizio Croce, Salvatore Iervolino, Anna Masecchia e Marcello Sannino. Un lavoro che non è di ricomposizione di un corpo cinematografico, quanto invece e piuttosto, come si legge nel catalogo della rassegna, «una traccia di lavoro tra le tante possibili, aprendosi a una visione che implichi da subito la prosecuzione, la diramazione, l’eccedenza. L’opera di Godard è materia di lavoro di una vita, quindi una retrospettiva su di lui non può non proporsi come una retrospettiva permanente».
C’è molto di vero in questa riflessione e quel vero coincide con la sovrapposizione sempre più evidente, man mano che gli anni passano e che si allontanano le contingenze storiche, del suo cinema con le fasi storico-politiche del mondo, dell’Europa. Quel cinema che il regista ci ha lasciato costituisce o può costituire criterio interpretativo della storia, a volte anche filtro rovesciato e controcorrente dei criteri interpretativi dei fenomeni. A Napoli fino al 2 dicembre, vigilia dell’anniversario della nascita, in questa rassegna così pervasivamente distribuita in molti luoghi della città quasi a radicare e contaminare di quelle immagini la metropoli, si vedrà il primo Godard con i film che coincidono con le suggestioni della Nouvelle Vague, quindi dagli esordi fino al 1967, con una significativa incursione nel Godard più recente con Le livre d’image. Sarà ancora un’altra occasione per saggiare e sperimentare la tenuta di quel cinema sempre così necessario per un autore che ci ha abituati ad un costante confronto con la materia di cui è fatta l’immagine, ad una costante e mai finita ricerca sul linguaggio come recettore e conduttore della comunicazione. È forse per questa ragione che si ha l’impressione pensando alla sua filmografia così vasta, frammentata e in parte inesplorata, di un cinema ininterrotto, forse perché lui, come diceva Henry Miller per gli scrittori, girava sempre film in una mai disgiunta consecutio tra il suo sguardo, il suo pensiero e il foglio/schermo dentro il quale finivano le sue elaborazioni.
Un giorno, d’improvviso ci siamo svegliati senza il cinema di Jean-Luc Godard, senza la sua scorbutica presenza, ma quell’assenza ci fa comprendere il senso dell’essere artisticamente orfani senza uno sguardo trasversale e primitivo, seminale e poliedrico. Un autore, Godard, che non aveva mai rincorso i tempi, caso mai il contrario. Il tempo, una volta tanto, aveva rincorso lui, il suo cinema sempre d’un passo avanti rispetto al tempo, in un ribaltarsi del senso della favola che vuole Achille sempre dietro la tartaruga. Il suo cinema ci ha insegnato quanto ancora si possa svelare della realtà, di quel visibile che immaginiamo ormai come del tutto svelato, quanto si possa ancora scoprire guardando secondo un’altra invenzione della prospettiva. Le immagini scritte nel Livre d’image ci hanno insegnato che ancora ne esistono di non viste e non immaginate, in quella anticipazione del tempo che già apparteneva ai suoi primi film, come sottolinea criticamente il lavoro preparatorio della retrospettiva napoletana. «La vera condizione dell’uomo è pensare con le mani», ci dice Jean-Luc Godard nel film del 2018, trasposizione verbale di un concetto che è essenzialmente ed originariamente cinematografico, figlio di una sintesi che è propria dell’immagine. Un altro tassello di quella ricerca sempre stupefacente, che si condensa nella straordinaria galleria di scrittura saggistica che sono sempre stati i suoi film senza tempo.