Le locataire chimérique è il titolo del bellissimo romanzo scritto da Roland Topor nel 1964 che catapulta il lettore in una storia in cui realtà e immaginazione coesistono, con un protagonista che è nello stesso tempo vittima e carnefice e subisce una vera e propria metamorfosi a mano a mano che la storia procede. Atmosfere kafkiane restituite magistralmente da Roman Polanski che lo portò sul grande schermo nel 1976 interpretando anche il protagonista Trelkovski. Grazie al successo del film, il romanzo venne tradotto in italiano, dapprima con il titolo L’inquilino stregato poi uniformato a quello ben più noto del film, L’inquilino del terzo piano. È però rimasto un romanzo di nicchia di un autore noto soprattutto come illustratore e disegnatore (collaborò anche con Fellini), che fu sceneggiatore e attore (compare nella scena iniziale di Ratataplan di Maurizio Nichetti) oltre che fondatore, con Fernando Arrabal e Alejandro Jodorowski, del Movimento Panico. La storia raccontata da Topor in Le locataire chimérique è strettamente connessa con la visione e il regista Claudio Autelli l’ha portata in scena in L’inquilino. Lo abbiamo incontrato, in occasione del debutto milanese (1 aprile 2016).
Partiamo dalla scelta del romanzo, a dir poco inconsueta…
Il mio interesse registico negli ultimi anni è cercare materiali non direttamente teatrali. Il romanzo di Topor è stato sulla mia libreria per molto tempo, l’avevo letto anni fa e mi piacque subito, forse anche per il sapore kafkiano del racconto (adoro Kafka e prima o poi, quando ci saranno le condizioni giuste, mi piacerebbe metterlo in scena). Si trattava di capire come tradurlo a teatro. La difficoltà – e insieme la scommessa – è stata trovare la chiave per trasporlo da un medium artistico altro che è la letteratura al teatro. Nella narrazione del romanzo ci sono ovviamente delle zone vuote che il lettore riempie con lapropria immaginazione e quindi gioca sul crinale del non detto per suggerire tutto il non detto psicotico del protagonista. Questa è stata la prima chiave interpretativa per il mio adattamento, ovvero suggerire una progressiva divaricazione dal piano narrativo al piano visivo. Trelkovski è anche in qualche modo il narratore della propria storia, ho conservato la narrazione in terza persona e quindi c’è una sorta di filtro, di distanza. Quello che accade progressivamente è che il piano narrativo si discosta dall’aspetto scenico, visivo mettendo in luce il fatto che al protagonista non bisogna credere. E questo è un piano interessante perché racconta bene la dicotomia tra quello che uno vuole essere, come vuole apparire e quello che gli accade in realtà nel subconscio. La scommessa è stata quella di lavorare proprio su questo dialogo tra verità e menzogna, tra realtà e fantasia, tra livello scenico e narrativo.
Come sei intervenuto sulla scrittura?
Per quanto riguarda la qualità della parola ho cercato di mantenere la traduzione italiana di Giovanni Gandini. Per me è stato interessante continuare a mischiare il discorso indiretto e quello diretto e, nel contempo, scegliere nel testo come costruire una dinamica a spirale che avviluppasse il protagonista tenendo un piano di continuità in questo suo percorso distopico. La novità è il finale, che diverge dall’originale, perché ho cercato di allargare l’indagine sul testo a partire dall’adesione di Topor al Movimento Panico. Ho cercato altri materiali dell’autore, i pochi tradotti in italiano. Lui è un artista poliedrico, ha scritto anche per il teatro, ma è conosciuto soprattutto come disegnatore (e suggerisco di cercare i suoi lavori perché sono bellissimi). In altri scritti definisce sempre attraverso il teatro, il monologo, la prima persona, i dialoghi, quello che per lui è il Movimento Panico. In sintesi si trattava di un movimento informale che si prefiggeva azioni artistiche che provocassero l’immaginario più oscuro del subconscio umano come atto di liberazione di energie vitali. Il tentativo di Topor, Arrabal e Jodorowski era di dare picconate al pensiero corretto, istituzionale, ai benpensanti, a tutto ciò che appare ai loro occhi come calmierante nella società. All’interno del movimento la storia dell’Inquilino è una grande allegoria di questo uomo ricorrente in Topor, nei suoi disegni, nei suoi aforismi… Quindi ho inserito qualcos’altro che in qualche modo suggerisse il portato metaforico da restituire al pubblico.
È un testo densissimo di temi. Ballard doveva averlo presente quando ha scritto Il condominio.
Topor come artista lavora su degli archetipi. È chiaro che il gioco è sull’immagine contemporanea del condominio, c’è questo vago rimando a una Parigi anni 60 nel romanzo che abbiamo rispettato, ma ha veramente l’aspetto di una favola nera e quindi tutto assurge più a metafora, ad allegoria che a vera indagine sociale legata a quei tempi. Non ho quindi fatto un lavoro di attualizzazione nei termini della connotazione storica, anzi, probabilmente anche suggestionato dalla poetica visiva di Topor, con la scenografa Maria Paola Di Francesco siamo andati a cercare elementi di scenografia realmente d’antan, vecchie ante del tempo, oggetti scenici che suggerissero quel tempo, che contenessero una storia. D’altronde la struttura del romanzo è ciclica, quindi questa storia potrebbe continuare a tornare e la scenografia racconta che in quel luogo ha già vissuto qualcuno.
È una storia di fantasmi ed è fuori dal tempo. Anche di grande attualità se si pensa alla paura veicolata dagli altri.
Il tema dell’identità è fondamentale sempre. C’è un’indagine introspettiva che si esplicita più nell’aprire la domanda che nel trovare la risposta e che mette in luce le costrizioni delle relazioni sociali. È un tema pirandelliano: quello che sei è frutto in realtà delle aspettative degli altri e di quello che la società ti chiede di essere e a cui ti chiede di corrispondere. Trelkosvki va in crisi nel momento in cui si rompe in qualche modo il patto sociale, si perde in questo pensiero arrivando a mettere a fuoco l’immagine della congiura che altro non è se non portare il nemico fuori da sé, è questo il procedimento psicotico che lui attua.
Il film di Polanski è stato per te un riferimento?
Conosco benissimo il film e adoro Polanski che torna sempre come una suggestione, anche in altri lavori che ho fatto. Non può non essere un punto di riferimento perché è un film bellissimo, ma diciamo che l’iter di questo progetto nasce come diretta conseguenza del romanzo. Ho cercato di fare una scelta di campo, come se lo spettacolo fosse complementare al romanzo: tutto ciò che non si vede nel romanzo si vede nello spettacolo e tante cose che, invece, nel romanzo sono spiegate, nello spettacolo si devono evincere dall’interpretazione degli attori. Il film può tenere tutto insieme, e, soprattutto nella seconda parte, ha questa continua altalenanza tra il piano dichiaratamente personale, onirico e il piano di realtà; nel nostro spettacolo questi aspetti arrivano a compenetrarsi completamente uno dentro l’altro, non sai più che cosa realmente stia accadendo, è molto più stretto dentro il cervello di Trelkovski, e lo spazio stesso risponde a questo aspetto. Gli elementi in scena sono tutti rotellati e quindi citi la realtà, ma poi di fatto la realtà è liquida, si sposta attorno al personaggio, secondo l’andamento della storia.
Come hai lavorato con gli attori?
Ho fatto un paio di laboratori propedeutici alla produzione per indagare il tema. Sono tutti attori con cui ho già lavorato, in genere disegno i personaggi avendo in mente chi li interpreterà. Qui ogni personaggio rappresenta una pulsione di Trelkovski: Stella, l’amante, in qualche modo riconferma la sessualità del protagonista, la signora Gaderian, il capro espiatorio, è lo specchio deformato di quello che potrebbe accadere a lui… Ci sono poi alcune grosse differenze, personaggi femminili che sono diventati maschili, hanno preso uno stile diverso, proprio nell’ottica di ricomporre una tavolozza di colori originali. I personaggi sono tanti e, tranne il protagonista, ogni attore ne interpreta più di uno. Quindi è anche una bella prova attorale, c’è un montaggio serrato, scene che si succedono una dietro l’altra…
Dal punto di vista produttivo, è uno spettacolo quasi totalmente indipendente.
Nasce come progetto di Lab121, l’associazione culturale di cui sono direttore artistico, per il bando di partecipazione al Napoli Fringe Festival del 2015. All’epoca presentammo un quarto d’ora di lavoro con tre attori e ci presero. Da lì, con la prospettiva di un debutto a Napoli, abbiamo cominciato a mettere a fuoco la produzione e l’idea è stata di provare tramite il crowfunding. Ci siamo quindi inventati iniziative promozionali, contenuti, gadget… è stato anche un modo per scoprire come funzionano queste campagne che in Europa sono molto diffuse, mentre in Italia scontano ancora una sorta di pregiudizio (il commento di mia madre è stato «Stai chiedendo l’elemosina»). In realtà si tratta di partecipare e di sostenere direttamente un’operazione culturale, senza passare attraverso Stato, tasse… La campagna è andata benissimo, nel nostro piccolo abbiamo raccolto più di 4000 euro ed è stato un aiuto, insieme al Sostegno del Festival, del Teatro del Cerchio di Parma e soprattutto alla grande adesione di tutte le persone che hanno deciso di partecipare al progetto (mi riferisco al cast artistico e tecnico e ovviamente a tutto l’organico organizzativo di Lab121). Ci sono tante persone coinvolte oltre ai donatori presenti in locandina. È un’operazione che si è basata sull’entusiasmo generale. Poi, come centro di produzione milanese siamo stati invitati al Padiglione dei teatri per Expo e abbiamo fatto quindi un’anteprima estiva all’Elfo che era esaurita. Nel frattempo ho lavorato sull’adattamento e adesso presentiamo la versione finale. Da ultimo è entrato nel progetto il Teatro Litta dove siamo in cartellone fino al 10 aprile.
Intanto sei già al lavoro su un altro progetto.
Sì, a livello operativo ci stiamo lavorando da più di un anno. Si tratta di Ritratto di donna araba che guarda il mare di Davide Carnevali, testo che ha vinto il Premio Riccione 2013, inedito, e noi abbiamo il progetto di produzione, con l’appoggio del Premio, per la prima assoluta. Stiamo lavorando per mettere su una squadra di collaboratori più ampia. Davide Carnevali è un autore under 35 che – è triste dirlo, ma è così – lavora più all’estero che in Italia (dal Brasile alla Germania, passando per Spagna e Francia). Non vedo l’ora di buttarmi a capofitto in questo nuovo progetto, per cui è previsto un debutto a fine anno a Riccione, in una rassegna curata dal Premio Riccione.
Milano Teatro Litta 24-29 ottobre