Il mondo del lavoro visto come un luogo di soprusi, dove lo spirito di sopravvivenza porta le persone a fare le peggio cose e ad accanirsi sul più debole per mantenere il proprio posto. Un ambiente popolato di predatori in cui i deboli vengono sacrificati senza tanti riguardi, veri e propri animali mandati al macello. Da qui prende le mosse Bull, lo spettacolo di Mike Bartlett, giovane drammaturgo inglese (classe 1980) pluripremiato in patria – tra le altre cose ha vinto il Laurence Olivier Award, il più importante riconoscimento teatrale in Inghilterra – che nei suoi lavori sviscera le dinamiche tra gli esseri umani legandole alla questione identitaria (suo è anche Cock, di cui abbiamo già parlato). La storia di Bull è presto detta: tre colleghi – Isobel, Thomas e Tony – aspettano che il loro capo, Carter, arrivi per comunicare chi tra loro tre verrà lasciato a casa. Nell’attesa, Isobel e Tony, belli e vincenti, si accaniscono contro il povero Thomas in un vero e proprio gioco al massacro senza esclusione di colpi, facendogli notare tutto quello che non va (dall’abito alla forfora, passando per l’atteggiamento rinunciatario…). Staordinari gli interpreti – Linda Gennari, Pietro Micci, Andrea Narsi e Alessandro Quattro – tutti calati a meraviglia nella parte e con il physique du rôle perfetto al ruolo richiesto. A mettere in scena questa black comedy spietata e politicamente scorretta è Fabio Cherstich, giovane e talentuoso regista (31 anni, nella foto), già assistente di Giorgio Barberio Corsetti, Filippo Timi e Andrée Ruth Shammah, molto attivo sia nel teatro di prosa sia nell’opera lirica. È anche scenografo («Sono scenografo e regista di lirica e regista e scenografo di prosa», precisa, e al momento sta lavorando alla regia di Madama Butterfly per il Teatro Massimo di Palermo, a Il barbiere di Siviglia per il Teatro dell’Opera di Roma e a un’opera di Philip Glass) ma insegna anche nuovi media, ovvero il rapporto tra video e teatro, alla Civica Scuola Paolo Grassi di Milano. Lo abbiamo incontrato.
Bull è un’opera con una messinscena molto scarna, ma con un testo potentissimo. Come lo hai affrontato?
Quando Andrée Ruth Shammah mi ha proprosto il testo di Bartlett dicendo che aveva pensato a me per la regia, l’ho letto e l’ho trovato molto interessante. È diversissimo rispetto al materiale su cui ho lavorato a teatro fino a questo punto, ma mi sono detto che valeva la pena rischiare. Parlo di rischio perché è comunque un teatro in cui l’autore stesso richiede di non procedere in maniera realistica, non può esserci nessuna azione mimetica, ci sono già tutta una serie di indicazioni nel testo (per esempio che il pubblico debba essere tutto attorno alla scena), mentre io in genere lavoro con le immagini, con le luci… e quindi voleva dire tornare a uno stato brado, anche di difficoltà oggettiva, ero consapevole di mettermi in una situazione complicata. E soprattutto di dover affrontare un lavoro sull’attore in maniera diversa, anche faticosa, conflittuale perché qui il testo è l’attore, non c’è nient’altro. Registicamente quindi per me significava confrontarmi con un’esperienza completamente nuova perché io, di solito, lavoro con il testo, ma non per il testo. Per me è stata un’operazione di denudazione e la conferma che il lavoro con l’attore è l’aspetto più difficile della regia. Ed è sempre bello riscoprire quanto è difficile e quanto sia bello fare un lavoro con il testo, per il testo e per gli attori, con tutte le difficoltà che questa cosa comporta. Ribadisco, in Bull lo spettacolo sono gli attori, io mi sono limitato a dare loro uno spazio molto potente e sintetico, un ring, in cui non ci sono oggetti né sedie, con una luce da ufficio…
Un ambiente asettico che ricorda anche un macello dove si dibattono delle bestie.
La luce può effettivamente essere da ufficio, da macello, obitoriale… Credo che il montaggio lo debba fare sempre il pubblico, che si porta a casa una serie di situazioni in cui lo spazio è come se fosse un indicatore e deve servire per guardare bene e permettere di abitare questo spazio che non è realistico, ma mentale.
Che cosa ti è piaciuto del testo?
Quello che mi ha affascinato è che teatralmente, per convenzione – poi forse questa è un po’ una forzatura rispetto alla drammaturgia contemporanea che sul discorso di scardinamento delle convenzioni teatrali della scrittura ha fatto una bandiera – ci si aspetterebbe che nel testo ci fosse qualche coups de théâtre, mentre, non a caso, non ce n’è nemmeno uno. Di conseguenza, registicamente e attoralmente, è molto difficile riuscire a tenere l’attenzione del pubblico in uno spettacolo che, per dirla con Stanivslaskij, non prevede evento, non c’è il grande turning point, non c’è catarsi…
In effetti fin dall’inizio la vittima sacrificale è designata…
Sì. Il punto di vista con il quale la regia racconta lo spettacolo non c’è, c’è la messa in campo dei diversi punti di vista dei personaggi. Tutti hanno un percorso che già parte delineato, ma si delinea sempre di più a mano a mano che l’azione procede. Per tutto lo spettacolo speri che Carter sia il salvatore e invece non è così, non è uno spettacolo appagante, né tantomeno conciliante.
È un vero pugno nello stomaco, senza speranza alcuna.
A un certo punto diventa un discorso totalitario. Il dato agghiacciante e pericoloso è contenuto in una battuta di Isobel: «Se non ci fossi stata io, ci sarebbe stato qualcun altro». Chi è questo qualcun altro? È presente tra il pubblico? Gli spettatori che cosa pensano? Sicuramente il pubblico tifa per Thomas, ma magari all’inizio trova anche Tony e Isobel simpatici perché, c’è poco da fare, il male è sexy, il diavolo è sempre stato ritratto con una componente legata al fascino, alla sensualità, al corpo, alla libertà, quindi il male, ahimè, è decisamente interessante. E anche il riconoscimento del male lo è. Quindi succede che, a un certo punto, si tende a soprassedere e questo è gravissimo.
Rispetto a Cock, Bartlett calca ancor di più la mano…
Decisamente. In ballo c’è sempre il tema dell’identità, qui le identità sono molto definite – tranne Thomas che non ha chiaro nemmeno bene lui chi è, è sempre combattuto e crede a tutto quello che gli dicono gli altri perché non ha certezze, da questo può di vista l’hanno distrutto. In Cock c’era l’identità vacillante, però, dal punto di vista sessuale che era comunque un pretesto per parlare dell’identità in generale e dell’essere in balia di quello che gli altri ti dicono, in un momento in cui nella nostra società c’è un’oggettiva perdita di identità. Isobel si è trovata la sua, Thomas no, perché la sua identità è stata minata dal mobbing, dal bullismo e quindi l’essere che è un po’ più sensibile, emotivo è destinato a soccombere. Qui non si può fare i conti con l’emotività, Carter lo dice chiaramente. Poi è anche vero, come dice Carter, che lui non è fatto per questo. Quindi i personaggi dicono delle cose che, a modo loro, hanno senso. È che sono sbagliati i modi, ma se i modi sono sbagliati, è sbagliato anche il senso, è sbagliato tutto.
Milano Teatro Franco Parenti 19 aprile – 7 maggio
www.teatrofrancoparenti.it