Il colpo di coda di un Leone d’Oro a Lav Diaz per The Woman Who Left, probabilmente inaspettato e/o insperato persino da Alberto Barbera, è una di quelle cose che lasciano il segno in un festival, definendone in buona misura la traiettoria complessiva. Questa 73ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica era in effetti importante, un po’ un banco di prova per capire il destino prossimo venturo di questa manifestazione. Che il sistema cinematografico globale – l’industria, diciamo pure – si sia ormai equilibrata sui due piatti della bilancia occupati da Cannes e Toronto è un dato di fatto scontato. Non altrettanto scontato è capire rispetto a questo scenario internazionale, in cui la triangolazione si chiude ovviamente sulla Berlinale, Venezia cosa intendesse fare. I segnali giunti lo scorso anno non erano molto chiari e nemmeno troppo incoraggianti, ma la selezione di quest’anno e la ratio impressale dai Premi delle due Giurie (Venezia 73 e Orizzonti) sembra invece aprire un dialogo ben argomentato e dinamico con il sistema internazionale, tenendo nel giusto equilibrio le ragioni di ogni cinema oggi possibile (o quasi: manca solo una certa agilità nei confronti di una ricerca che sia veramente d’avanguardia) e considerando ponderatamente le strategie di piazzamento rispetto alle ragioni di tutti: industria, autori, mercato, critica…
Il Leone d’Oro a Lav Diaz, che finalmente consacra con un riconoscimento forte questa straordinario autore, consente alla Mostra di titolarsi presso il sistema festivaliero e presso il mercato art-house, riconoscendosi nel suo mandato nel nome dell’“Arte Cinematografica” (dizione che lascia il tempo che trova, ça va sans dire…) e la condanna alle critiche a orologeria di chi al solito lamenterà un premio elitario a un film “in bianco e nero di quattro ore” che non aiuterà gli esercenti… Lo stesso sarebbe accaduto con un premio pieno al non meno bello Jackie di Pablo Larrain, che invece ancora una volta manca la consacrazione e che forse avrebbe sollevato qualche lamentela di mercato in meno, magari nel nome della Portman in cartellone o dell’effetto gossip abbinato alla figura della First Lady Jacqueline. Ma, una volta che ci si libera della litania dei sacerdoti del box office inviati speciali al Lido, magari ci si rende conto che la Mostra di Barbera passa agli annali quest’anno portandosi dietro ben tre film americani d’alto lignaggio produttivo, a iniziare dal Leone d’Argento Gran Premio della Giuria a Nocturnal Animals di Tom Ford, piazzamento tutt’altro che trascurabile per un film che ha il peso produttivo di Focus e Universal. Se poi si mettono in conto la Coppa Volpi a Emma Stone per La La Land di Damien Chazelle (in quota Oscar prossimi venturi) e il Premio Speciale della Giuria a The Bad Batch di Ana Lily Amirpour (film insulso, ma marchiato Annapurna Pictures, la potentissima società di Megan Ellison, ormai fondamentale per tutto il cinema extrastudios americano)…, ebbene questa 73ma Mostra le sue carte dimostra di essersele giocate più che bene. E lo ha fatto assicurandosi, tra l’altro, un grande credito oltreoceano, non solo a Hollywood e New York, ma in quelle che un tempo si chiamavano le Americhe in generale, visto che poi uno dei due Leoni d’Argento per la Regia è andato al messicano Amat Escalante per La región salvaje e la Coppa Volpi maschile è andata all’argentino Oscar Martínez per El Ciudadano Ilustre di Mariano Cohn e Gastón Duprat.
Il tutto con evidente spiazzamento del cinema europeo, che dal concorso Venezia 73 esce un po’ come ci era entrato, ovvero a mani sostanzialmente vuote. L’ex aequo per la regia al grande russo Andrei Konchalovsky per Paradise, insieme al Premio Marcello Mastroianni all’emergente Paula Beer per Frantz di François Ozon, restano nel palmarès in maniera interlocutoria, e fanno rimpiangere l’assenza di quello che era uno dei quattro grandi film della competizione, Une vie di Stéphane Brizé (se non il più improbabile ma pur bellissimo Wenders di Les beaux jours d’Aranjuez). Ma per il resto non c’è troppo da recriminare, men che meno per la compagine italiana, che è apparsa fatalmente debole (e magari qualche svista di collocazione tra i due concorsi, a iniziare dal Vannucci di Il più grande sogno in Orizzonti e Spira Mirabilis in Venezia 73, era evitabile… o forse no…). Ma poi guardi il concorso di Orizzoni è ti accorgi che questa Mostra di Alberto Barbera va in archivio senza trascurare non solo il cinema europeo ma nemmeno quello italiano, che continua la serie positiva della tradizione documentaristica con il premio a Liberami di Federica di Giacomo. Il resto del palmarès di Orizzonti è praticamente tutto in quota europea: la regia al belga Fien Troch per Home, il Premio Speciale al turco Koca Dünya (Big Big World) di Reha Erdem, gli attori (la spagnola Ruth Díaz per Tarde para la ira di Raúl Arévalo e il portoghese Nuno Lopes per São Jorge di Marco Martins. Se a tutto ciò si aggiunge un assetto logistico che finalmente sembra avere una sua forma e dignità e garantisce una vivibilità in altri tempi inimmaginabile, il disegno complessivo della Mostra sembra tutto sommato quadrare e racconta di una kermesse meno frenetica e più razionale degli ormai troppo grandi festival internazionali, tarati sempre più sulla formula dell’evento globale.
E dunque: voto complessivo per questa Mostra 2016? Se proprio dobbiamo: 7- …