Kamp. L’Olocausto impresso nella fissità di mille pupazzi

Kamp at the Space theatre in AdelaideDal 2005 la società olandese Hotel Modern porta in giro per i teatri del mondo Kamp, senza mai interrompere il suo tour attraverso quasi cinquanta città,  da New York ad Adelaide, da Parigi a Tokyo, ma anche Spoleto e recentemente Torino. Al centro di  tutto l’Olocausto, o  meglio, Auschwitz, ricostruita in miniatura in un plastico che occupa l’intero palcoscenico. Quando si prende posto in teatro non ci si aspetta di vedere gesti tanto radicali e violenti compiuti da piccoli“burattini”, alti non più di dieci centimetri e mossi dalle abili mani di tre “burattinai”, sempre in scena tra le casette degli  orrori  di un campo di concentramento perfettamente ricostruito. Il  più grande omicidio di massa ci scorre sotto gli occhi nel silenzio delle parole, ma non di suoni, ripreso da piccole videocamere a fibre ottiche che restituiscono sullo schermo diseguale scene esangui dai colori quasi prosciugati. Un omino spala la neve in solitudine, mentre poco oltre si sta preparandouna delle tante esecuzioni sulla  forca. Non mancano il treno, che rifornisce il  campo di  nuovi prigionieri, il filo spinato, le camere a gas, i forni crematori, i saloni delle feste per gli ufficiali tedeschi,  l’insegna “Arbeit  Macht  Frei”.

 

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Tutto innocuo e tutto terribile perché riprodotto meccanicamente come nella più aperta quotidianità. I gesti sono nudi e poveri, e per questo capaci di far vibrare tutto l’orrore del vero. Questi uomini di argilla e fil di ferro hanno nere cavità al posto degli occhi e volti appena accennati, dove l’impassibilità cede il posto allo sgomento. La genialità dei  tre animatori della compagnia Hotel  Modern, Herman Helle, Pauline Kalker e Arlène Hoornweg, è di aver trovato in questo modo una forma rappresentativa al tempo stesso realista eastratta, emiotivamente vicina ma anche distante. Proprio la distanza fa la differenza, perché vedere ciò che da sempre conosciamo in una trasfigurazione tanto inattesa crea il cortocircuito della nostra identificazione. Non sono più gli uomini o le donne che mettono in scena quell’inferno, ma dei pupazzetti sui quali si va a depositare quel surplus di realtà che fa di questa messa in scena un capolavoro di tensione drammatica. Ancora una volta, raccontare il reale attraverso la sua distorsione produce effetti amplificati nei significati e nel pathos di gesti che non potremo mai più vedere con gli stessi occhi. Identico meccanismo adottato sapientemente dal regista ungherese László Nemes nel film Il figlio di Saul, in uscita a gennaio 2016 nelle sale italiane.

 

 

Hotel Modern – Kamp from TEMPS D’IMAGES on Vimeo.