Roberto Latini, attore, autore e regista, nel 1999 ha fondato la compagnia Fortebraccio Teatro che, come dice la presentazione sul sito, è «volta alla sperimentazione del contemporaneo, alla riappropriazione dei classici e alla ricerca di una scrittura scenica originale». Con questo spirito, nel 2012, ha riscritto e messo in scena, contaminandolo con riferimenti ad altri autori (William Shakespeare, Eugène Ionesco, Antonin Artaud, Carmelo Bene…), Ubu roi di Alfred Jarry, farsa grottesca del 1896, anticipatrice del surrealismo e del teatro dell’assurdo e nata da una parodia del professore di fisica del liceo di Rennes frequentato da Jarry. Un’insolita e potente rilettura quella di Latini – anche interprete dello spettacolo accanto ai bravissimi Savino Paparella (padre Ubu), Ciro Masella (madre Ubu), Sebastian Barbalan, Marco Jackson Vergani, Francesco Pennacchia, Guido Feruglio e Fabiana Gabanini – accompagnata da una messinscena efficace nella sua asetticità (in scena alla Sala Fontana di Milano fino a domani, poi a Firenze e Fermo). Lo abbiamo incontrato.
Nella tua versione ci sono echi non solo del Macbeth di Shakespeare, ma anche di Amleto, Giulio Cesare, La tempesta, Romeo e Giulietta. Come hai lavorato sul testo?
Il testo di Jarry è veramente troppo complesso per essere messo in scena, c’è una quantità enorme di personaggi, situazioni, luoghi e quindi ho pensato che Jarry chiedesse di essere rinviato a qualcosa d’altro. E credo che questo faccia appello alla fantasia: cercare qualcosa d’altro rispetto a quello che c’è. Pertanto, nella riduzione dei personaggi e delle situazioni – basandomi sulla storia che è comunque, fondamentalmente, la parodia di Macbeth – credo siano rintracciabili altri Shakespeare. Insomma, come in patafisica ho pensato si potesse tornare indietro e fare una riscrittura dell’Ubu roi che poi è diventato un classico del teatro proprio come Macbeth, Amleto, Romeo e Giulietta… Ho, quindi, cercato di vedere dove fosse possibile inserire le parole di Shakespeare e anche a chi farle dire, non ai due Ubu, ma a uno spettatore interno che potesse essere coetaneo dei personaggi rappresentati. La mia scelta è caduta su Pinocchio che è più o meno è contemporaneo agli Ubu.
Che tu interpreti e che compare come una sorta di testimone muto.
Pinocchio fa questo percorso da burattino a bambino esattamente come succede agli Ubu che nascono come marionette, prima addirittura come fumetti – o comunque come qualcosa di parodistico rispetto al professore di fisica del liceo – e poi diventano un testo per attori. E allora c’è lo stesso percorso di metamorfosi, di trasformazione. Che potesse essere Pinocchio mi è sembrato giusto anche perché Pinocchio è quello delle bugie, è quello del “sembra”, del “non è vero”, del non essere, ma anche dell’essere nella sua sincerità. E allora lui è spettatore, sta lì dentro, ma non partecipa praticamente all’azione fino all’incontro con Padre Ubu.
Per te il cinema è un riferimento? Penso all’incipit dello spettacolo che richiama 2001 Odissea nello spazio, ma anche a Fellini, Kusturica…
Sì, mi piace il cinema, o meglio certo cinema. Però penso anche che certe cose sono nell’immaginazione dello spettatore, e lo dico sempre anche agli attori: non dobbiamo rappresentare la nostra idea, dobbiamo suggerire qualcosa che non sappiamo neanche cosa può essere, perché è molto più bello lasciare degli indizi per un possibile altro che raccontare la nostra verità che, credo, interessa solo a noi.
Nelle note di regia parli di “assumersi delle responsabilità”, riferendoti alla «distinzione, tutta italiana, tra sperimentazione e tradizione». Il tuo teatro va oltre gli steccati però continua a esserci questa idea che la sperimentazione sia qualcosa da proteggere…
Sì, è quindi non va neanche fatta vedere alle persone. Ubu roi ha avuto, fin dalla sua nascita, un consenso trasversale, l’hanno visto dei bambini e l’hanno visto dei super intenditori, gente capace di riconoscere la voce originale di Artaud (le urla che si sentono ogni tanto sono tracce prese da Per farla finita con il giudizio di Dio). È uno spettacolo che ha un livello di capacità relazionale, di possibilità altra, e non va protetto dall’etichetta della sperimentazione di ricerca, come se fosse per molti ma non per tutti.
Le foto sono di Simone Cecchetti
Milano Sala Fontana fino al 16 ottobre
Firenze Teatro di Rifredi 15-19 novembre
Fermo Teatro dell’Aquila 30 novembre
www.fortebraccio.com
www.teatrosalafontana.it