Originariamente pensata come una docu-serie in nove parti per celebrare i 50 anni del Clint Eastwood regista, il documentario di Gary Leva viene proposto in un’unica soluzione al 39esimo Torino Film Festival (Fuori concorso). Oltre alla voce narrante di Jeff Teravainen, Clint Eastwood: A Cinematic Legacy fa parlare il grande regista, che si racconta con ironia, sul set dei vari film, e dà spazio agli attori e alle attrici da lui diretti (da Meryl Streep a Tom Hanks, da Hilary Swank a Bradley Cooper passando per Morgan Freeman, Gene Hackman, Kathy Bates, Kevin Bacon, Kevin Costner e molti altri), ai colleghi e amici di sempre (tra cui Martin Scorsese, George Lucas e Steven Spielberg, ma anche Mel Gibson e Arnold Schwarzenegger per cui è stato e continua a essere un modello), ai produttori e sceneggiatori che da tempo lavorano con lui e che formano la sua grande squadra. Il sodalizio con la Warner (che produce il documentario) gli ha permesso negli anni di usare il suo potere per realizzare i film che vuole fare, come nel caso di Million Dollar Baby (2004) che – a detta di George Lucas – per l’argomento trattato nessuno studio avrebbe accettato di produrre. Eastwood ha dimostrato nella sua lunghissima carriera di rimettersi costantemente in gioco e di lanciarsi continuamente in nuove sfide anche a seconda del momento che stava vivendo: Meryl Streep fa notare che I ponti di Madison County (1995) è arrivato in un periodo in cui era innamorato (si sarebbe sposato con Dina poco dopo la fine delle riprese), mentre lui stesso racconta che Filo da torcere (1978), in cui recita accanto a un orango corrispondeva a una sua esigenza di fare un film che avrebbero visto le famiglie con i bambini (la casa di produzione pensò a un’improvvisa pazzia che, comunque, fruttò 78 milioni di dollari al botteghino, cifra record per l’epoca).
Il primo capitolo, A Director’s Vision, traccia il percorso che porta l’attore californiano inizialmente noto solo per aver recitato nella serie tv Gli uomini della prateria ad accettare il ruolo offertogli da Sergio Leone in Per un pugno di dollari (1964) che con i successivi Per qualche dollaro in più (1965) e Il buono, il brutto e il cattivo (1966), gli aprono le porte di Hollywood e lo portano a essere diretto da Don Siegel per poi spingerlo a cimentarsi con la regia. Eastwood rende omaggio ai suoi maestri per poi trovare la sua strada, come racconta il capitolo quarto, Reinventing the Western, reinventando il genere attraverso personaggi che compiono azioni malvagie e le rivendicano: «Sì, ho ucciso donne e bambini» ammette William Munni in Gli spietati (1992). Il secondo capitolo The Heart of a Hero e il successivo Witness to History si concentrano sui film che hanno come protagonisti degli eroi, gente comune chiamata a fare qualcosa di straordinario, come l’American Sniper (2014) Chris Kyle o i tre giovani in vacanza che bloccano l’attentatore pronto a fare una strage sul treno che collega Amsterdam a Parigi in Ore 15:17 – Attacco al treno (2018) o Sully (2016), il pilota che compie un ammaraggio di fortuna sul fiume Hudson salvando tutti e 155 i passeggeri del suo volo. Storie vere per cui Eastwood e gli attori che interpretano gli eroi si documentano in maniera approfondita, incontrano le famiglie, passano del tempo con loro. Addirittura è arrivato a scritturare gli stessi eroi nel ruolo di se stessi ovvero Anthony Sadler, Alex Skarlatos e Soencer Stone, i tre ragazzi che il 21 agosto 2015 bloccarono l’attenatore sul treno (ma ha fatto rivivere la vicenda anche ai sommozzatori e al pilota del traghetto in navigazione sull’Hudson che per primi soccorsero gli scampati alla tragedia aerea). O ancora il Nelson Mandela di Invictus (2009), con le immagini dell’incontro tra Morgan Freeman e Madiba o il discusso capo dell’FBI «in parte buono, in parte cattivo», interpretato da Leonardo DiCaprio in J. Edgar (2011).
Il quinto capitolo, An Actor’s Director, racconta dell’atmosfera incantata che si respira sui set di Eastwood, del rapporto di reciproco rispetto per cui tutti gli attori sanno le loro battute, del fatto che non si fanno prove («la prova è il primo ciak») per non perdere in intensità, del fatto che non dica “Action!” ma “Go” e non dica “Cut”, ma “Stop”, del modo di dirigere che apparentemente lascia grande libertà agli attori, in realtà conducendoli sempre dove vuole lui: «Parlo poco, ma quando lo faccio voglio dire qualcosa». Nel successivo No Holds Barred tutti gli intervistati sottolineano il grande senso dell’umorismo di Clint e le immagini del set testimoniano di una grande rilassatezza.
Fighting for Justice rende invece omaggio alla figura iconica dell’ispettore Callaghan che permette a Eastwood di inventare un nuovo tipo di poliziesco con un personaggio che è un dichiarato omaggio al James Cagney di La furia umana (1949) di Raoul Walsh e con dialoghi indimenticabili. L’ottavo capitolo Courage Under Fire è dedicato ai film di guerra, in particolare Flags of Our Fathers e Lettere da Iwo Jima (entrambi del 2006), mentre il nono Triple Thread è incentrato sulla tripla sfida di essere al contempo produttore, regista e attore, ruolo quest’ultimo che negli ultimi anni ha cercato più volte di abbandonare, tornando poi sempre suoi suoi passi e che gli ha permesso di continuare a dare vita a personaggi memorabili come il corriere di The Mule (2018) o l’anziano cowboy che vedremo presto in Cry Macho (2021).