«Un numero crescente di studiosi è concorde nell’affermare che proprio grazie ai tratti distintivi dell’immaginazione melodrammatica la modernità abbia prodotto i suoi principali dispositivi di rappresentazione del reale (l’evoluzionismo, il marxismo, la psicoanalisi, il cinema)».
Così nel Prologo a Melodramma. Un percorso intermediale tra teatro, romanzo, cinema e serie tv (appena edito da Pàtron Editore, Bologna) Fabio Vittorini – professore ordinario di Letterature comparate e Musica e immagine presso l’Università IULM di Milano, collaboratore del quotidiano «Il Manifesto» nonché nostro collaboratore – torna a occuparsi di un genere che gli è particolarmente caro (nel 2000 aveva scritto Shakespeare e il melodramma romantico edito da La Nuova Italia e dieci anni più tardi Il sogno all’opera. Racconti onirici e testi melodrammatici per Sellerio). Lo abbiamo incontrato.
Melodramma è un’etichetta con la quale sia nel linguaggio d’uso che nei linguaggi specialistici si intendono cose non perfettamente sovrapponibili e talvolta molto lontane. Nel tuo libro Melodramma. Un percorso intermediale tra teatro, romanzo, cinema e serie tv si arriva a una definizione precisa del termine attraverso delle distinzioni. Proviamo a ricostruirla?
Il melodramma non va inteso come un genere letterario o cinematografico, ma come un modo rappresentativo plurisecolare, un insieme di procedimenti retorici, atteggiamenti conoscitivi, aggregazioni tematiche, forme elementari dell’immaginario che nel corso della storia si cristallizzano in generi e testi diversi all’interno di media diversi. Un modo rappresentativo che si configura come una sorta di macchina che genera generi e consente l’interscambio e la sovrapposizione tra generi, tra modi diversi come il realistico, il fantastico e il comico, così come tra diversi media, momenti storici e contesti nazional-culturali; un modo, infine, che ha l’economia di un porto franco, in cui ogni scambio di “merci” tra generi diversi non solo è consentito, ma è incoraggiato.
Quali sono allora i tratti distintivi del melodramma inteso come modo?
Il melodramma è un dispositivo di conoscenza estetica dotato di una straordinaria capacità di sintesi contenutistica e formale, in una cornice di democrazia cognitiva e di emotività irrefrenabile: la realtà viene rappresentata mediante riduzione a opposizioni primarie (bene vs male; onore vs amore); i media e i generi coinvolti nella rappresentazione, spinti all’eccesso (nell’uso di parole, immagini o musiche), amplificano gli opposti in assoluti (il Bene, il Male, l’Onore, l’Amore). Il melodramma attinge alle origini della teatralità, a un’idea di spettacolo che si spinge sempre oltre il concetto limitante di rappresentazione, dominato com’è dal narcisismo infantile nel suo indulgere all’autocompiacimento, a stati emotivi roboanti e sfrenati: uno spettacolo del mondo come mondo dell’Io, scolpito a sua immagine e somiglianza, in cui il principio di realtà è drasticamente sottomesso al principio di piacere. Uno spettacolo in cui la musica e il gesto soccorrono puntuali e didascalici il testo verbale, aiutandolo a mostrare tutto e a mostrarlo in grande.
Nel libro ricostruisci nel dettaglio l’origine del modo melodrammatico dal genere storicamente determinato del mélodrame. Un genere lontanissimo da noi, almeno in apparenza. Di cosa si tratta?
Come ogni genere, il mélodrame risulta dalla precipitazione di tratti (l’eccesso, il moralismo, l’uso della musica…) che, disciolti a basse quantità lungo tutta la storia delle grandi narrazioni occidentali, alla fine del Settecento raggiungono la sovrasaturazione per ragioni storico-ambientali e si solidificano. In particolare, con la sua violenza rappresentativa, esso sembra costituire, insieme ai concomitanti romanzi libertini e gotici, la «moralità della Rivoluzione» (Nodier) quando i moti rivoluzionari sono ormai esauriti: di qui il suo tratto schematicamente moralistico, refrattario all’introspezione fine a se stessa e manicheo, che gli dà un’aria di lezione remunerativa a basso costo, incaricata di confermare per lo più il senso comune. La sua psicologia è tipizzata, come nella commedia dell’arte, poiché il popolo cui è destinata non chiede sfumature e si accontenta di personaggi o del tutto buoni o del tutto cattivi che vanno ricompensati o puniti, come nei morality play medievali. Nella sua tendenza all’eccesso, il mélodrame si sforza di ripristinare una qualche forma di (pseudo)tragico oltre la morte della tragedia, insistendo con ogni mezzo sul presupposto che «l’esistenza umana è di per sé una provocazione o un paradosso» e che «le intenzioni degli uomini spesso si infrangono contro forze inspiegabili e distruttive» (Steiner). Riposizionando quel presupposto, desunto dalla tragedia classica, in una cornice dominata dall’idea tipicamente moderna che la vita privata sia l’unico assoluto e che i suoi conflitti meritino di essere raccontati con un trasporto senza limiti, il mélodrame si propone come moderna tragedia popolare, aspirando a una sorta di dionisiaco addomesticato: nel senso che la dimensione domestica (la domus intesa come spazio delle relazioni di sangue, incentrata sempre attorno a un dominus, di solito un padre e/o un re) è quella dove più spesso deflagrano i paradossi della vita. Il mélodrame, infine, come già da quasi due secoli l’opera lirica e come un secolo più tardi il cinema e poi la fiction televisiva, è un genere popolare misto che risulta dalla collaborazione di scrittori, musicisti, coreografi, scenografi, attori, sfidando le convenzioni metodologiche della critica moderna, che tende a privilegiare nella sua storiografia opere individuali di eccezionale rilievo, associate a un unico creatore e a un singolo medium, riunendole in canoni: il mélodrame, al contrario, come il melodrama hollywoodiano a venire, è una forma fin dal suo inizio multimediale appartenente alla cultura di massa, completamente mercificata e prodotta collettivamente su scala industriale, una forma la cui storia è costituita non da un canone, ma dalle correnti di ampi settori della produzione commerciale, e le cui opere, in un modo che mette in risalto la loro modernità, non sono create da singoli artisti, ma dal lavoro “aziendale” di molti.
Come mai, a partire dalla seconda metà del Settecento, l’immaginazione melodrammatica si configura come uno degli elementi centrali della sensibilità moderna?
L’immaginazione melodrammatica non è altro che la pulsione a percepire e immaginare l’elemento spirituale in un mondo che la cultura illuminista ha svuotato del «sacro tradizionale», un mondo in cui «il codice etico è diventato una sorta di deus absconditus che si deve ricercare, postulare, riportare nell’esistenza umana attraverso il gioco dell’immaginazione spiritualistica» (Brooks) alimentata dalle grandi narrazioni (letterarie, sceniche, figurative e più tardi audiovisive). In questo modo essa diventa la forza che orchestra l’aggiustamento agli shock e alle transizioni della modernità, ovvero una struttura cognitivo-emotiva che consente di fronteggiarne e rappresentarne i cambiamenti politici ed economici, le qualità esperienziali, le fluttuazioni ideologiche, le ansie culturali, le controtendenze intertestuali, la demografia sociale, le pratiche commerciali e l’iperstimolazione costante cui esse sottopongono l’uomo moderno. Proprio grazie ai tratti distintivi dell’immaginazione melodrammatica la modernità ha prodotto i suoi principali sistemi di interpretazione del reale (l’evoluzionismo, il marxismo, la psicoanalisi, il cinema). Prendiamo l’esempio della psicoanalisi freudiana, definibile come «una specie di melodramma moderno, che concepisce i conflitti psichici in termini melodrammatici» (sempre Brooks): lo provano i dispositivi teorici e clinici, peraltro strettamente connessi, del complesso di Edipo e del romanzo familiare dei nevrotici, che desumono dal melodramma ottocentesco archetipi essenzialmente narrativo-drammatici e li restituiscono alla semiosfera melodrammatica novecentesca arricchiti di un nuovo potere ermeneutico e semopoietico. Le geometrie relazionali padre-madre-figlio così come vengono descritte da Freud non solo prendono a modello classici della tragedia (Edipo Re di Sofocle, Hamlet di Shakespeare), ma si nutrono dello stesso genere di patetico fondato sui legami di sangue e sulle genealogie familiari tipico del mélodrame, rivisitato in una prospettiva sistemica che riconduce analiticamente quei legami alla loro dimensione erotica inconscia, teorizzando per la prima volta l’esistenza di quella regione dell’essere dove si celano i nostri desideri elementari e i nostri tabù.
Dopo essere risalito alle origini dell’immaginazione melodrammatica, mappandone le strutture profonde, ricostruisci le relazioni storiche tra il genere nel quale si è inizialmente cristallizzata e i generi coevi o successivi in cui si è diffusa.
Si tratta di una ricognizione schiettamente comparatistica e intermediale, che ci pone di fronte a sovrapposizioni, conflitti e nessi imprevisti, che si configurano a volte come ostacoli da superare, ma più spesso come pegni delle sorprendenti risorse ermeneutiche del melodramma. Il tratto che accomuna tutti i generi facenti riferimento al modo melodrammatico è che in essi la realtà costituisce sia l’oggetto del dramma sia la maschera di un dramma più autentico e nascosto, un dramma misterioso al quale si può in un primo tempo solo alludere, per poi affrontarlo con una serie di ipotesi e giungere gradualmente a fare piena luce sui suoi segreti solo in prossimità dello scioglimento. Si tratta di generi in cui l’aspetto realistico-documentario e quello emotivo-visionario sono inseparabili, in cui la musica, l’elevatezza di tono e l’iperbole, la polarizzazione dei conflitti, il senso di minaccia e di suspense interne alla rappresentazione sono necessari a evocare il deus absconditus etico-spirituale di un mondo dissacrato e materialistico, l’eterna lotta tra bene e male che dà un senso alla Storia e dunque anche alle storie; generi in cui ogni contrasto viene spinto alle sue ultime, estreme conseguenze, e tutto ciò che vi è di implicito viene reso visibile e tangibile. Ecco: i generi prodotti dal modo melodrammatico sono essenzialmente caratterizzati e accomunati da un bisogno ultimativo di visibilità e tangibilità.
Quali sono nel corso dei secoli i generi letterari o audiovisivi nei quali l’immaginazione melodrammatica acquista maggiore corpo?
In estrema sintesi: l’opera lirica romantica, che nasce infrangendo gli argini del teatro arcadico e i limiti ad esso connaturati (il buon gusto che impediva eccessi come morti in scena o elementi sovrannaturali; la distinzione rigida tra opera seria e opera buffa; il costante riferimento alla tradizione classica): si pensi a La traviata di Verdi; il romanzo realista-naturalista, che mescola alle vicissitudini morali generate dall’eros quelle generate dal denaro, spostando il baricentro del melodramma verso la materialità della società coeva: si pensi a Splendori e miserie delle cortigiane di Balzac; il melodrama cinematografico e televisivo statunitense, che Hitchcock ritiene «il midollo e la linfa vitale del cinema» in generale, «l’unica strada che porta a un realismo cinematografico che sia anche intrattenimento»: in particolare il melodramma familiare diviene allo stesso tempo lente di ingrandimento sulle relazioni intergenerazionali, sociali e storiche del dopoguerra: si pensi a Lo specchio della vita di Sirk o a Mildred Pierce di Haynes. E ancora: il cinema d’autore europeo, in cui il melodramma, sostanziato dal paradigma psicoanalitico freudiano e talvolta dalla filosofia della storia e dalla sociologia del marxismo, diviene il grimaldello per aprire le porte di una realtà che, a partire dalla rivoluzione sociale avvenuta a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, è sempre più complessa e stratificata: si pensi a Gruppo di famiglia in un interno di Visconti; infine, il romanzo metamoderno, che fa della complessità e della stratificazione appena menzionate l’oggetto primo della sua rappresentazione e usa il melodramma per arginare la proliferazione delle forme e dei significati, ancorandoli modernamente alla realtà storica e a un sia pur provvisorio residuo di leggibilità morale: si pensi a Una vita come tante di Yanagihara.
Sembra che il tragitto secolare dell’immaginazione melodrammatica non sia casuale, ma corrisponda a una linea evolutiva ben precisa.
Quel tragitto rappresenta a un tempo l’esigenza della riconsacrazione di un mondo irrimediabilmente dissacrato dal razionalismo illuminista e l’impossibilità di concepire quella riconsacrazione se non in termini strettamente psicologici, individuali(stici), morali(stici). Nel melodramma, in forme via via più oblique e raffinate, che in genere convivono con quelle più semplici della tradizione, bene e male appaiono sempre personalizzati, introiettati, perché al bene e al male si deve poter dare un nome, come agli esseri umani; anzi, il melodramma tende proprio a denominare nel modo più chiaro possibile l’universo etico. La sua essenza è in quella denominazione, processo che dalla fine del Settecento a oggi, pur variando a ondate successive lessico e usi sintattici, non ha mai cessato di muoversi entro i confini di una lingua che fa della leggibilità morale il suo tratto identitario. Il modo melodrammatico si profila così come una costante della modernità, forse la più resistente, che nel corso dei secoli, ibridandosi con i modi attigui che se ne sono serviti per sopravvivere, ha prodotto generi differenti. La differenza, a ben guardare, è nel tentativo di offrire risposte formulate col linguaggio del presente a domande sostanzialmente immutate.