Nel dibattito senza fine intorno alla figura del Che Guevara, non era di fatto mai voluto entrare: Juan Martín, il più piccolo dei cinque fratelli Guevara De La Serna, è nato nel 1943, quindici anni dopo quell’Ernesto passato alla storia come “Che”, e quando quest’ultimo entrava da conquistatore all’Avana insieme agli altri “barbudos” capitanati da Fidel Castro, egli era un adolescente. Tuttavia, quello con Ernesto fu un rapporto vero, coltivato a distanza attraverso il contatto epistolare (laterale rispetto a quello estremamente intenso che il Che ebbe con la madre), al punto che Juan Martín può oggi convintamente asserire: “Ernesto è il mio fratello di sangue, il Che il mio compagno di idee”. Ha deciso di rompere un silenzio che durava da quasi mezzo secolo, Juan Martín, pubblicando un libro di memorie (Mon frére, le Che) che ha scritto con la giornalista francese Armelle Vincent, perché era “giunto il momento di prendersi dei rischi, magari anche di essere frainteso, pur di dare corpo e contenuto a un’immagine che non accetto sia ridotta a icona pop o santino”. Juan Martín, fisico vigoroso, sguardo penetrante e gentile, è transitato nei giorni scorsi per l’Italia, invitato dal Lab 80 di Bergamo, per introdurre la visione (che si è tenuta in alcune città) di Che-Un hombre nuevo, pellicola diretta nel 2010 da Tristán Bauer e rimasta fino ad oggi inedita nel nostro Paese. Lo abbiamo incontrato.
Juan Martín: ha pagato un prezzo per essere fratello del Che, o la parentela è stata la sua salvezza durante la prigionia in Argentina?
Realmente, non lo so. Finii in carcere nel 1975, prima del golpe, perché ero un militante del PRT
(Partito Rivoluzionario dei Lavoratori, ndr), e ci rimasi otto anni, ottenendo la libertà condizionata solo quando il regime era ormai al crepuscolo. Ricordo ancora la sorpresa dei miei aguzzini quando scoprirono chi fossi. Poi, un giorno, a golpe avvenuto, arrivò nella mia cella un personaggio che aveva fama di torturatore spietato ed io pensai che fosse finita. Invece, dopo avermi sorriso, mi disse: “Proprio un grande uomo tuo fratello, peccato che fosse comunista”. In seguito seppi di un interessamento di Pio Laghi, allora Nunzio Apostolico a Buenos Aires, per la mia sorte; mi fece anche avere in carcere un crocefisso e una medaglietta della Madonna. Ma non ho prove di un suo intervento diretto, anche perché molti documenti ufficiali sono secretati o spariti. Di sicuro sono stato più fortunato di molti amici, che sono “desaparecidos”.
Anche lei, dunque, è stato un “revoluciónario”?
Il vero rivoluzionario è stato Ernesto. Ai tempi dell’università e dei suoi primi viaggi, ma anche dopo la laurea, aveva in mente di essere un medico rivoluzionario, di girare per l’America Latina a portare un messaggio di solidarietà e di lotta attraverso la sua professione. Poi c’è stato il passaggio a rivoluzionario senza altre etichette, sempre con l’idea che la rivoluzione si fa insieme al popolo, non certo a prescindere da esso. Ha sempre avuto una visione lucida e messo in campo un’azione tesa alla costruzione di un mondo migliore. La nostra epoca avrebbe decisamente bisogno di un altro Che, ma non se ne vedono in giro, come lui…
Uscito dal carcere, lei non si è più occupato di politica. A cosa si è dedicato?
Ho fatto il libraio, il rappresentante di sigari Havana, il commerciante di vini, assecondando tre
diverse passioni.
Com’era Ernesto nell’intimità, prima di diventare il Che?
La nostra era una famiglia abituata a viaggiare molto, e penso che Ernesto abbia assorbito più di
tutti lo spirito vagabondo. Era un fratello maggiore per nulla prepotente, anzi piuttosto premuroso e protettivo, ma senza essere invadente; in generale, era dotato di uno humour molto pungente, che mirava a scatenare una reazione nell’interlocutore.
Ritiene che il pensiero del Che sia attuale?
Lo è certamente. Lo è, perché le disuguaglianze sono addirittura maggiori che in passato, perché
c’è più corruzione, perché ci sono nuove emergenze che stanno rivelandosi in tutta la loro forza
negativa, come per esempio quella ambientale. E poi il Che non era affatto – come molti sono portati a credere – un dogmatico. Al contrario, era uno capace di mettere in discussione le proprie idee, se trovava che non fossero adeguate alla realtà. Prima di morire stava lavorando a una revisione radicale, a una critica dello stesso pensiero economico dell’Unione Sovietica: quello di Lenin, per intenderci, che pure era un personaggio che amava. Ma non avrebbe mai rinunciato ai suoi principi per il denaro e per il potere.
L’icona “Che” Guevara è stata variamente affrontata da letteratura e cinema. Ampiamente dalla prima, con meno continuità dal secondo. Se il monumentale saggio Senza perdere la tenerezza di Paco Ignacio Taibo II rappresenta probabilmente l’apice tra gli scritti in materia, la Settima Arte ha faticato a offrire un quadro che non fosse agiografico (In viaggio con il Che di Gianni Minà), parodistico (l’improbabile Che! di Richard Fleischer, con Omar Sharif imbarazzante nei panni di Guevara e Jack Palance bizzarro sebbene spassoso in quelli di Fidel Castro), oppure efficace ma rapsodico (Che di Steven Soderbergh), se non addirittura consapevolmente parziale e laterale (I diari della motocicletta di Walter Salles). Che-Un hombre nuevo, diretto nel 2010 da Tristán Bauer – cineasta argentino con un presente da manager di stato, rigoroso nel ritrarre connazionali celebri come Evita Perón e Julio Cortázar o carneadi come Esteban Leguizamòn, antieroe nella guerra delle Falkland – non è certo un capolavoro, ma colma con dieci anni di ricerche parecchie lacune documentali e si impone con una narrazione lenta e potente, a tratti malinconica eppure ipnotica, che copre con intensità variabile l’intero arco della vita del Che, dall’infanzia ai viaggi iniziatici in America Latina (trattati brevemente, con pochi accenni), dall’epoea sulla nave “Granma” alla Revolución cubana, dagli insuccessi in Congo fino alla morte in terra boliviana, su cui alcuni fermo-immagine gettano opaca e sinistra luce. Seguendo una cronologia non schematica e utilizzando discorsi, lettere, poemi, diari, audio, video prodotti nel tempo dal Che medesimo – in buona parte inediti fino al momento della ricerca di Bauer – e forniti dalla famiglia di origine, dalla moglie Aleida March o dagli archivi boliviani (almeno fino a quando qualche responsabile non si è accorto dell’imprudenza della cosa), il regista lascia, con notevole intuizione anti-retorica, che sia Guevara stesso il proprio biografo, restituendoci così in modo naturale l’uomo dietro al mito. Ed è curioso come si espliciti in particolare nel Che lettore (di Verne, di Wilde, di Shakespeare, di Strindberg, di Cervantes, prima ancora che di Marx e di Lenin) la tensione ideale che esisteva tra il pubblico e il privato, tra la sua vita sociale e la sua sfera intima, che si rivela scrigno prezioso, qui scandagliato come mai prima.