Lorenzo Mattotti: La mia Patagonia, terra di linee senza confini

Un fuoriclasse del disegno, il suo sguardo immaginifico e penetrante che incontra una terra mitica, l’elaborazione successiva di immagini personalissime che la raccontano. L’ultima versione pubblica di un artista di mirabile eclettismo come Lorenzo Mattotti – nato a Brescia nel 1954, da oltre vent’anni residente a Parigi – era in veste di regista cinematografico, alle prese con la traduzione in cartoon di un racconto di Buzzati, La famosa invasione degli orsi in Sicilia, presentato a Cannes 2019, nella sezione Un Certain Regard; lo ritroviamo ora nel suo abito più classico di illustratore (tra i più bravi in assoluto della sua epoca), impegnato con la Patagonia e con un orizzonte senza eguali. La Patagonia secondo Mattotti è prima di tutto un luogo dell’anima, quindi uno “spartito paesaggistico” che esalta la magia del luogo diffondendo un’armoniosa musica dei segni: l’avventura alla fine del mondo affrontata nel 2003 con l’amico Jorge Zentner (scrittore argentino, in coppia con il quale realizzò il capolavoro Il rumore della brina, graphic novel pubblicata in quello stesso anno) ha sedimentato per mesi, prima di diventare una serie di tavole; oggi, a distanza di diciassette anni, è sia un libro (scrigno prezioso di suggestioni senza tempo) che una mostra, Patagonia, esposta allo Spazio Mutty di Castiglione delle Stiviere (Mantova). I meravigliosi lavori a china di Lorenzo Mattotti che raccontano la Patagonia saranno esposti dal 5 ottobre al 28 novembre 2020 presso Mutty, prestigioso spazio culturale ricavato da un antico laboratorio artigianale, che si trova a Castiglione delle Stiviere, in via Guido Maifreni 54 (Tel. 0376/639921). Si entra liberamente: gli orari di visita sono dalle 11 alle 20, tutti i giorni, esclusi martedì e domenica.

 

 

La mostra, curata da Melania Gazzotti, propone al pubblico non soltanto le serigrafie ricavate dai disegni dell’illustratore, ma anche il taccuino da viaggio da cui provengono, con l’aggiunta di una selezione di tavole originali a colori realizzate sulle strade polverose del profondo Sud americano. In occasione dell’esposizione, la casa editrice Lazy Dog Press pubblica inoltre un volume da collezione che raccoglie le 24 doppie tavole in bianco e nero su carta nepalese, insieme ai disegni a colori fissati in Patagonia su un classico Moleskine, corredati da brevi testi dell’autore e dello scrittore Jorge Zentner, amico e compagno d’avventura. Abbiamo raggiunto telefonicamente Mattotti nella sua casa parigina. (In apertura Lorenzo Mattotti, fotografia di Caterina Sansone).

 

 

Mattotti, come le venne l’idea di esplorare la Patagonia?

Per me è sempre stato un luogo mitico, un po’ come Samarcanda, essa pure evocativa sin dal nome, che infatti ho voluto vedere quando ancora faceva parte dell’Unione Sovietica. Senza il mio amico Jorge, invece, non avrei probabilmente mai visitato la Patagonia: argentino del Centro, Jorge aveva pianificato con cura certosina un viaggio in auto nel Sud del Paese per celebrare il mezzo secolo; come un parassita, mi sono appiccicato a lui, con la scusa che anch’io ero prossimo ai cinquant’anni.

 

Cosa l’ha affascinata, più di tutto?

La natura estrema: distese sconfinate, spazi e cieli a perdita di vista, il vento, il vuoto totale, montagne che paiono a portata di mano e che invece non raggiungi mai. In certi territori degli Stati Uniti avevo sperimentato qualcosa di simile, ma alla fine là tutto era più controllato, non avevo mai veramente la sensazione di potermi perdere davvero: in Patagonia, invece, ho provato l’agorafobia al suo massimo grado, insieme al senso di un’enormità che ti avvolge e ti fa ritenere irraggiungibile qualsiasi meta.

 

 

Non ci sono né coloni né indios nei suoi disegni: nessun interesse per la gente della Patagonia?

Abbiamo fatto parecchi incontri, in effetti e, da buon giornalista, Jorge si faceva raccontare le storie più bizzarre, spesso vicende di conflitti e violenza primitiva, che alle mie orecchie suonavano come narrazioni del West. Diversamente da viaggiatori-letterati come Chatwin, Coloane o Sepúlveda, affascinati da storie patagoniche di varia umanità, io sono stato però attratto soprattutto dagli aspetti naturali. E quelli poi, mi visitavano la notte: sia a me che a Jorge è capitato di sognare tantissimo in quei giorni erranti, come se il nostro inconscio stesse tirando fuori il meglio di sé.

 

A proposito di scrittori, alla partenza è arrivato “vergine” o dopo aver letto di tutto in materia?

Cerco di non accumulare informazioni preventive sui luoghi che visiterò. Mi era però capitato di leggere Coloane (che ho apprezzato) e pure Chatwin, ma confesso che il suo In Patagonia mi ha annoiato.

 

La Patagonia secondo Mattotti è disegnata con pennino e china, spoglia di ogni colore, concentrata nella musica delle forme, focalizzata su sinuosità e profondità. Anche per marcare una distanza rispetto all’uso scintillante del colore che caratterizzava Il rumore della brina, pubblicata poco prima?

Non per quello. Quando viaggio per realizzare un reportage disegno ciò che vedo, scatto foto, uso la cinepresa; ma non di rado il risultato mi lascia insoddisfatto e arrivo a provare un sentimento di…troppo poco. Cercando di ritrovare, a distanza di qualche mese, nel mio studio a Parigi, l’armonia dello sguardo che ho sentito mentre viaggiavo in Patagonia, mi sono reso conto che non avevo idea di come restituire un paesaggio in movimento e che avrei prima dovuto individuare un mio alfabeto grafico per rappresentarlo. Si spiega così la rinuncia al colore e l’attenzione per le linee. L’approfondimento mi è servito molto in seguito, per illustrare la Toscana, Venezia, il Vietnam, anche se ho utilizzato forme diverse, nell’ambito però di coordinate definite una volta per tutte.

 

 

Manca qualcosa alla sua Patagonia?

Non ho trovato un modo realmente efficace per disegnare le balene, incontro meraviglioso avvenuto nella Penisola di Valdés: ne ho preso atto, ho rinunciato a farlo.

 

Lo scorso anno ha firmato la sua prima regia cinematografica, sviluppando ulteriormente una corrispondenza d’amorosi sensi con la Settima Arte che nel tempo si è nutrita di collaborazioni con Michelangelo Antonioni, Wong Kar-wai, Steven Soderbergh, Enzo D’Alò, con la Mostra del Cinema di Venezia. Vista l’ottima accoglienza riservata a La famosa invasione degli orsi in Sicilia, pensa di cimentarsi nuovamente dietro la macchina da presa?

Al momento proprio non ci penso: devo prima disintossicarmi…intanto ho ripreso il gusto di disegnare senza scadenze assillanti. Il cinema è una macchina affascinante ma complicata: il lavoro portato a Cannes è stato faticoso, considero un miracolo che sia riuscito. Adesso non vedo l’orizzonte delle possibilità circa un nuovo impegno di regia, anche perché il livello della produzione è stato alto e sarebbe difficile tornare indietro. A meno che non salti fuori una storia irresistibile, che possa essere girata in “povertà”, per il semplice gusto della narrazione…

 

Da anni non vive in Italia, sebbene torni molto spesso da noi. Che idea si è fatto guardando il Paese da una certa distanza?

Dramma Covid a parte, o forse proprio per quello, vedo un Paese concentrato, più serio, più attento di come lo ricordavo. Anche meno superficiale, meno leggero dell’aria che invece respiro quassù. Vivere lontano accentua la durezza, a volte perfino la cattiveria dello sguardo, ma forse anche l’amore: non hai il problema di farti trascinare dalle mille polemiche, riesci a essere più obbiettivo, più essenziale nel giudizio. Ciò che scorgo è una maggiore consapevolezza generale, che non posso dire mi dispiaccia.