L’8 aprile 2013 l’inviato de La Stampa Domenico Quirico veniva rapito in Siria e liberato dopo 152 giorni di prigionia. È lui il protagonista di Ombre dal fondo, documentario in cui la regista Paola Piacenza, che nasce come giornalista, si interroga e cerca di dare delle risposte su una professione sempre più controversa. Il film, evento di chiusura della Giornate degli Autori, è prodotto da Luca Guadagnino, insieme con Rai Cinema e DenebMedia. Ne abbiamo parlato con l’autrice.
Perché hai deciso di fare un documentario su Domenico Quirico?
Avevo il desiderio di fare qualcosa che riguardasse la mia professione, ma non avevo le idee molto chiare. Volevo provare a ragionare su come il giornalismo sta cambiando davanti ai nostri occhi e in maniera che non sempre corrisponde al desiderio di quello che vorremmo fosse, da cittadini prima e da giornalisti poi. Durante la prigionia di Quirico pensavo molto a lui e le due cose andavano in parallelo: da un lato, c’era il desiderio di occuparmi del mio lavoro e, dall’altro, seguivo il rapimento con apprensione. Quando è stato liberato, ho chiesto a un amico comune di presentarmelo e ci siamo incontrati alla presentazione del suo libro Il paese del male, uscito a ridosso del suo rientro. Gli ho detto che avevo in mente di fare un documentario sulla nostra professione, chiedendogli se era disposto a concedermi un’intervista. Lui è stato estremamente disponibile e dopo la prima intervista queste due linee si sono, in qualche modo, sovrapposte e ho capito che volevo occuparmi solo di lui e della sua storia. Ricordo che sono andata al Festival del giornalismo di Perugia per comunicarglielo.
Come ha reagito?
Era incuriosito… Così la conversazione è andata avanti, abbiamo fatto altre interviste a casa sua, con intervalli di tempo lunghi. Tra l’una e l’altra succedevano delle cose, lui partiva, tornava, era un periodo in cui riteneva di muoversi poco, in realtà si muove molto più della media dei giornalisti e forse anche più di tanti inviati, quindi la riflessione riguardava sempre l’attualità, ma riguardava anche il suo passato di giornalista, il suo senso della professione. A un certo punto, quello che ho sempre pensato sarebbe stato un film di parola, è diventato altro. Sapevo, perché me l’aveva ribadito in più occasioni, che amava andare da solo nei vari posti, e che le poche volte che gli era capitato di andare con un fotografo, scesi dalla scaletta dell’aereo uno andava a sinistra e l’altro a destra, perché arrivare in un posto con una persona con la macchina fotografica al collo modifica il contesto e lui non vuole parlare di un posto che è stato modificato da questa presenza. Sapevo che una camera sarebbe stata ancora più invasiva, quindi ho resistito all’idea di chiedergli se mi avrebbe fatto andare con lui. Quando mi sono decisa a farlo, sorprendentemente, ha accettato.
E siete partiti per l’Ucraina…
Sì, abbiamo organizzato il viaggio in Donbass, siamo partiti io e Ugo Carlevaro, il direttore della fotografia, quindi una troupe leggerissima, e di fatto Domenico è stato il produttore di questa spedizione. Ha organizzato tutto lui, ha trovato i contatti, ci siamo mossi con le sue modalità ed è stato qualcosa di molto interessante da vedere. Io mi sono mossa in varie aree di transizione, però lo faccio in maniera più convenzionale, lui si muove in un modo molto personale, è molto intuitivo nella scelta dei contatti, trova delle persone che lo portano veramente dentro alle situazioni, e così è stato anche questa volta.
Infatti hai ripreso uno scambio di prigionieri.
Siamo arrivati in questo luogo che era la linea del fronte. Inizialmente ci avevano detto che non sarebbe stato possibile filmare nulla, fino a mezz’ora prima era così, poi improvvisamente si è aperta questa possibilità. È stato come viaggiare in una macchina del tempo che ti porta indietro fino alla Prima guerra mondiale perché è tutto trincee, trincee nel fango, allagate, c’è gente che vive nelle trincee, è una guerra molto poco moderna. Questo primo viaggio è stato per me preziosissimo e illuminante.
Poi c’è stato un secondo viaggio…
Al ritorno dall’Ucraina abbiamo continuato la nostra conversazione e veniva sempre fuori la Siria, che non doveva essere il centro del film. Lui lo dice chiaramente: «Se mi avessi chiesto di fare un film sulla Siria, ti avrei detto di no». Però la Siria era talmente presente che, a un certo punto, lui ha cominciato a dire che voleva tornare sui luoghi della prigionia. È quindi stato organizzato un primo viaggio e lui ha deciso di muoversi in maniera opposta a come aveva fatto le altre cinque volte che ci era entrato, cioè non con i ribelli (che, quando era entrato clandestinamente, poi lo avevano venduto), ma in maniera ufficiale, chiedendo un visto al governo siriano – di cui lui aveva scritto in modo molto chiaro e sicuramente non amichevole, quindi non era scontato che il visto sarebbe stato concesso. Siamo quindi andati a Beirut, dove lui ha avuto una serie di incontri per cercare di procurarsi il visto, ma senza successo. In quest’occasione abbiamo registrato la delusione e la sensazione del cambiamento del suo status: era abituato a fare delle scelte basate sull’intuito, molto veloci, e ora, invece, era costretto a misurarsi con la burocrazia di un governo elefantiaco.
Tempo dopo, però, la situazione si risolve…
Sì, il visto è arrivato per lui, ma non per me. Nessuno stupore, non mi aspettavo succedesse… Mi sono quindi limitata ad accompagnarlo al confine di Masnaa, che è il confine ufficiale che congiunge Beirut e Damasco, dove c’è una terra di nessuno di 8 km e mezzo. Durante questo viaggio c’è stata un’altra conversazione particolarmente interessante sulle aspettative e sulla natura del viaggio…
Nel film ci sono le immagini oltre confine. Come sei riuscita a ottenerle?
Ero disperata all’idea di non averle, ma, per fortuna, attraverso un intermediario sono entrata in contatto con un operatore locale e, quindi, da Beirut ho continuato a seguire i movimenti di Domenico attraverso le immagini che questo ragazzo mi mandava in bassa risoluzione su Whatsapp. Vedevo dove si muovevano, che cosa vedevano, sono arrivati a pochi metri dalla linea del fronte con i ribelli… Le immagini di Aleppo sono preziose perché sono le immagini di una città che non abbiamo mai visto nei notiziari, un luogo deserto, spettrale, infernale. Da lì, poi, si passa a Yabroud, città piuttosto vicina, uno dei luoghi dove è stato tenuto prigioniero e qui c’è la ricerca della casa dove è stato perché, nel frattempo, la città è cambiata, è stata bombardata, molte delle cose che lui ricordava sono stata distrutte, però aveva dei punti di riferimento e, a un certo punto, vedi che realizza che era stato proprio in quella casa.
Nel tempo il rapporto tra voi è cambiato, è diventato più intimo. Il film si apre con le riprese di lui che corre…
Quelle sono state fatte abbastanza di recente, non è una cosa che avrei mai pensato di chiedergli all’inizio. Anche la prima intervista tutta sulla professione… Certo, i rapporti evolvono sempre, se questo lavoro non fosse durato complessivamente tre anni dubito che sarebbe il lavoro che è, non è una cosa che puoi fare velocemente e lui è stato davvero generoso nel raccontare anche quello che gli stava succedendo come persona.
Anche rispetto alla sua famiglia.
Quirico non svicola la domanda inevitabile di cosa le persone che gli vogliono bene pensano del suo desiderio di tornare là, risponde che non sa cosa sia giusto fare. Afferma di essersi chiesto se non fosse il caso di mentire, di dire che andava in posti meno pericolosi (per esempio, è andato nel Nord della Nigeria dove c’è Boko Haram, un luogo altrettanto pericoloso della Siria), però alla fine la sua conclusione è che mentire non è mai la soluzione. Quindi sospende il giudizio…
Nel film fai un uso interessante degli archivi.
L’archivio della Rai dell’arrivo di Quirico a Ciampino lo abbiamo visto mille volte in TV ed è stato lavorato in montaggio. Lo abbiamo rallentato, dandogli una qualità un po’ onirica, e poi c’è una parte di archivi sulla guerra in Siria per cui ho fatto una lunga ricerca, scegliendo un bombardamento a nord di Aleppo e una battaglia con i carri armati nella zona della stazione degli autobus in un sobborgo di Damasco. Lì ho provato a immaginare cosa poteva pensare, quali potessero essere i suoi ricordi…. Quel gruppo di immagini l’ho sempre chiamato “l’incubo” e quando Quirico le ha viste ha detto che erano molto simili a quelle che aveva vissuto.
Hai potuto contare su un gruppo di collaboratori particolarmente fidati e fedeli…
È davvero inusuale che un montatore stia su un progetto così a lungo, per di più un progetto che si apre e si chiude in continuazione. Per questo penso che Valentina Andreoli abbia fatto un lavoro molto poco consueto per un montatore. Con grande pazienza e intelligenza è tornata sui suoi passi, ha riaperto il discorso… È stato un lavoro molto intenso. E lo stesso vale per Ugo Carlevaro, il direttore della fotografia, che fin da subito, insieme ai suoi soci Piero De Vecchi e Daniele Vascelli, è entrato come coproduttore portando forza lavoro, materiali… È stato un apporto preziosissimo.