«La sua anima e la sua musica continueranno a vivere…
Grazie, fratello, per tutto quello che ci hai portato…»
Snoop Dogg
Sulle fiancate del monster truck che ha fatto da carro funebre per le strade di Brooklyn alla chiassosa e sentita cerimonia del suo funerale c’era scritto “Long Live DMX” (lunga vita a DMX). Earl Simmons – in arte DMX – se n’è andato il 9 aprile scorso, a soli 50 anni, dopo essere stato una settimana in coma da overdose. Dietro il truck funebre: una fila interminabile di fan in moto da cross, che ha seguito il feretro, rombando fino al Barclays Center.
Una vita e una morte nel segno della fantasia sgargiante, di ogni eccesso e dello show. La cerimonia, visibile anche in streaming all’esterno del Center, per le misure anti Covid, è stata aperta da Kanye West e dal suo gruppo Gospel Sunday Service Choir (DMX amava la musica Gospel più di ogni altro genere, perfino dell’hip-hop in cui era un peso massimo).
«All I know is pain, all I feel is rain […] I resort to violence, my niggas move in silence/Like you don’t know what our style is/New York niggas the wildest…». Cantava DMX in Ruff Ryder’s Anthem, uno dei suoi memorabili inni rap, contenuto nel primo album, It’s Dark and Hell is Hot (pubblicato con la Def Jam nel 1998), forse il suo miglior disco in assoluto. Un album che ha resettato e ridefinito il “Rap Game”, a fine secolo scorso. Testi violenti, spesso nichilisti, beat selvaggi, essenziali e serrati. Scalò le vette delle classifiche americane e poi conquistò il mondo, prima di ridiscendere all’inferno. E risalire ancora e ridiscendere… Come su un ascensore tra stelle luccicanti e stalle luride. Fin da bambino, una vita violenta, fuori e dentro il carcere. Fuori e dentro dipendenze varie.
Una religiosità controversa, figlio di Testimoni di Geova, divenne fervente cristiano evangelico in carcere. Si autoproclamò pastore evangelico, poi si è fatto ordinare diacono. Una religiosità – vista dall’esterno – in netto contrasto con lo stile di vita, le droghe, i quindici figli illegittimi e infine l’eccesso, la violenza verbale di molti testi.
Eppure, in un’intervista dietro le sbarre – quando era al Maricopa County Jail, Phoenix – disse: «Sono finito qui per incontrare qualcuno. Non so chi, lo riconoscerò quando lo vedrò. E sono finito qui per consegnare un messaggio a quel qualcuno. Il messaggio è che Gesù lo ama…».
Ha vissuto una delle vite più incredibili nella galleria di storie incredibili del mondo hip-hop americano. Una morte recente molto comune tra le rockstar (l’eccesso di droga) e, infine, un funerale-show degno degli action e i B movie che ha interpretato come attore (Romeo deve morire, Ferite mortali). DMX, un alias preso dalla omonima drum machine digitale (l’Oberheim DMX, omaggio alla vecchia carriera da DJ), poi diventato acronimo di Dark Man X. Era amico dei cani randagi con i quali ha spesso convissuto in strada da bambino, nei vicoli di Brooklyn, quando sua madre lo chiudeva a chiave in camera, per giorni, in punizione e lui sgattaiolava fuori dalla finestra. Ai cani ha dedicato canzoni, pezzi, copertine di album. Tradito da tanti, soprattutto da se stesso, i suoi cani sono stati un simbolo costante di fedeltà.
Le immagini dell’ultimo show hanno fatto il giro del mondo…
Caro Earl, hai saputo cantare come pochi il disagio, i demoni, la violenza della vita di strada per un bambino nero dei vicoli, tu possa riposare in pace.
Peace!
I 5 migliori album di DMX secondo duels:
1. It’s Dark and Hell Is Hot (1998)
2. Flesh of My Flesh, Blood of My Blood (1998)
3. Grand Champ (2003)
4. And Then There Was X (1999)
5. The Great Depression (2001)