Il nuovo lavoro di Roberto Latini è la riscrittura di una riscrittura: Amleto + Die Fortinbrasmaschine prende infatti le mosse da Hamletmaschine di Heiner Müller, testo di fine anni 70 liberamente ispirato all’Amleto di Shakespeare. La drammaturgia di Latini e Barbara Weigel mantiene la suddivisione in cinque capitoli di Müller (Album di famiglia, L’Europa delle donne, Scherzo, Pest a Buda battaglia per la Groenlandia, Nell’attesa selvaggia/Dentro la orribile armatura/Millenni) arricchendola di riferimenti all’immaginario contemporaneo (al cinema, ma anche a Eduardo De Filippo, Carmelo Bene…) e con una lettura filologica del testo di Shakespeare (un amore che caratterizza tutto il percorso artistico della compagnia che, non a caso, si chiama Fortebraccio). Il risultato è uno spettacolo denso di significato, e di senso, che restituisce la potenza delle parole del Bardo, creando un cortocircuito tra passato e presente estremamente interessante. Roberto Latini, solo in scena, è come sempre straordinario nel dar vita a tutti i personaggi della tragedia shakesperiana (e il suo “Essere o non essere” è uno dei più belli e intensi visti a teatro). Lo abbiamo incontrato.
Un’operazione metatrale all’ennesima potenza la tua.
Sì, possiamo dire che Fortebraccio e Fortinbras si sono dati appuntamento nella metateatralità. Ho sempre avuto un’attrazione forte per le capacità che ha il teatro di usare se stesso per parlare d’altro… O per tacere rispetto ad altro.
Amleto è un testo in cui l’azione scenica è tutta costruita sulle parole e tu lo dimostri: i personaggi finiscono per essere schiacciati o avvolti dalla spirale delle loro parole.
Effettivamente la penso così. Nei Giganti della montagna, altro spettacolo in cui sono solo in scena, dico esplicitamente che non ci sono personaggi, ma solo le parole di Pirandello. Qui, invece, ci sono anche i personaggi con il loro carico all’interno sia della storia di Amleto e di quanto c’è intorno alla storia di Amleto sia di quello che è diventato Amleto nelle coscienze moderne. Avere a che fare con una riscrittura come è Hamletmaschine di Müller è pensare che anche quello è diventato un classico ormai, anche se poi magari non si conosce quanto Amleto. Quindi se addirittura una riscrittura è diventata un classico, figuriamoci quanto tutto sia radicato, quindi anche le parole e la loro la capacità di stare oltre il palco.
Cominci con una presa di posizione molto forte: «Io non sono Amleto – Non sto al gioco – Non recito più alcun ruolo» e ironizzi sul fatto che questo può «sembrare teatralmente amletico».
L’incipit è un passaggio che c’è in Heiner Müller in cui il personaggio che fa Amleto dice di non essere Amleto, però poi effettivamente ho aggiunto quella cosina che fa sorridere ogni volta sul fatto di essere ciò che non si è.
E poi citi apertamente il primo articolo della Dichiarazione universale dei diritti umani (“Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”) e ti colleghi alla “fraternité”. Il tuo è anche uno spettacolo politico?
Sì, Hamletmaschine lo era negli anni 70: è stato un testo fondamentale, interpretato e scritto per una buona parte dell’Est di quegli anni. Il nostro testo non si riferisce a una politica geografica, magari più a una politica sociale, a una politica umana, sicuramente a una politica teatrale. Amleto è un personaggio che siamo tutti, per fortuna e, per fortuna anche, nessuno di noi è davvero mai Amleto, o lo è mai stato.
Nello spettacolo a un certo punto si vede su uno schermo tv il celebre monologo di Rutger Hauer in Blade Runner…
Sì, è nel terzo capitolo che si chiama “Scherzo” e ha a che fare con i passaggi musicali, lirici, fa riferimento allo scherzo che ha la capacità di stare come l’allegro sta alla musica. Cominciamo con un pezzettino di Rigoletto per passare poi ai pesci che sono il resto del silenzio, e al monologo di Blade Runner che mi è sempre sembrato molto shakespeariano, in accezione moderna: questo “Time to Die”, “è tempo di morire” è veramente uno dei momenti più amletici della cinematografia moderna recente.
Anche Ofelia in versione Marilyn Monroe è molto potente. Mi ha fatto venire in mente la poesia che Pasolini dedicò all’attrice «abbandonata al suo destino di morte».
Ofelia è il personaggio meno mascherato di tutti, effettivamente. Ciò che spero succeda all’interno dello spettacolo è, non che lo spettacolo ricostruisca le mie verità che sono sempre relative e mai assolute, ma che con questo semplice materiale a disposizione l’immaginario possa assumere un’altra forma attraverso gli spettatori. Spiegare la questione di Blade Runner è riduttivo rispetto a quello che può arrivare allo spettatore. L’importante è mantenere una proposta, cioè l’attivazione fondamentalmente del percorso teatrale, il teatro è questo, non sono io che lo detengo e vado a spacciarlo dal palcoscenico, è qualcosa che avviene nella disponibilità dello spettatore quindi nell’immaginazione e mi piace pensare che l’appuntamento sia proprio lì.
La partitura musicale è, come sempre avviene nei tuoi spettacoli, fondamentale.
Con Gianluca Misiti lavorativamente siamo in un rapporto simbiotico, lui per me è coautore degli spettacoli, non è soltanto quello che fa play sulla lista delle musiche, è un compositore. Io dico che lavoro nel lusso di poter condividere e moltiplicare con qualcuno che ha una sensibilità come la sua tutto quello che mi viene in mente o che spero di avvicinare nel tentativo. Siamo riusciti negli anni, e la nostra collaborazione va avanti dal ’94, a non darci un metodo. Credo che riuscire a far questo in quasi 25 anni di lavoro comune è già di per sé un merito.
Milano Teatro Litta fino al 29 gennaio
Pontedera (PI) Teatro Era 5 febbraio