Rilettura in chiave musicale del testo shakespeariano, apoteosi pop di violenza, follia, e décor sfrenato, Riccardo va all’inferno è il nuovo film di Roberta Torre, a otto anni da I baci mai dati, nelle sale dal 30 novembre in circa cento copie. Il protagonista (Massimo Ranieri), con cranio rasato e cappotto alla Neo di Matrix, dopo anni esce da un ospedale psichiatrico in cui lo ha confinato, in quanto deforme, la Regina Madre: una Sonia Bergamasco che si è prestata a un make up molto intenso che la porta a essere un ibrido parecchio inquietante tra Amanda Lear e la Clara Calamai di Profondo rosso. Con l’appoggio di un manipolo di fedelissimi, i freaks, Riccardo si prepara a chiudere i conti con il suo clan, i Mancini, alle prese con spaccio di droga e perversioni varie e capeggiati proprio dalla Regina. Con un occhio al Rocky Horror Picture Show e un enorme lavoro di scenografia e costumi, finalmente permette a un artista poliedrico come Massimo Ranieri di esprimere sul grande schermo tutto il nero e la natura più profonda dell’attore. Riccardo va all’inferno è un film ufo, sanguinoso, a tratti schiacciato dal suo essere costantemente eccessivo, sopra le righe, sospeso tra la tentazione del musical e lo scatenamento ipercromatico, liberatorio, che è cifra distintiva della regista di Tano da morire.
Nel cast, che proviene da esperienze molto differenti, Silvia Gallerano (Betta), Ivan Franek (Romolo), Silvia Calderoni e Teodoro Giambanco (i due gemelli), Michelangelo Dalisi (Giò detto Ginger), Antonella Lo Coco (Lady Anna), Matilde Diana (Bettina), Tommaso Ragno (Edoardo la jena). Più un coro di freaks, sodali di Riccardo III. Colonna sonora di Mauro Pagani, pubblicata anche in vinile (edizioni Backstage/Macù).
ROBERTA TORRE
L’origine del progetto
Avevo lavorato sul testo di Shakespeare a teatro, ma mi era rimasta la voglia di approfondire, lavorarci ancora. Quindi ho pensato di farne una versione cinematografica e musicale. Anche se realmente si pensa sempre al musical come opportunità di commedia, questo testo mi sembrava un’occasione straordinaria per fare un lavoro che non fosse quello del musical legato solo all’aspetto leggero, alla commedia musicale. Quando ho immaginato l’interprete di Riccardo III, insieme ai produttori ho pensato immediatamente a Massimo Ranieri. Quando gliene ho parlato sembrava aspettare questa occasione e soprattutto ha colto una sensibilità, un’intenzione. C’è anche da dire che il protagonista avrebbe dovuto lavorare sulla voce, che ovviamente non è la sua voce classica, quindi un timbro scuro, nero. Per fare questo abbiamo avuto un grandissimo aiuto da Mauro Pagani, che è autore delle musiche e dei testi. A me piaceva lavorare anche molto sulle figure femminili del Riccardo III, che invece normalmente restano unicamente delle figure maledicenti, e dunque ho lavorato su una Regina Madre che avesse la stessa capacità di fare andare avanti l’azione. Loro due sono speculari, due facce della stessa medaglia. In questi due meravigliosi interpreti ho trovato la possibilità di realizzare un progetto altrimenti impossibile.
Il lavoro sul testo
Ho lavorato con Valerio Bariletti, coautore della sceneggiatura, a diverse stesure. Siamo partiti dai dialoghi originali di Shakespeare per poi renderli attuali, quotidiani. Un lavoro che è durato tanto, perché anche con Paolo Guerra abbiamo pensato di prenderci più tempo per la sceneggiatura. Quello sui dialoghi è un lavoro affascinante, che potenzialmente potrebbe durare in eterno, perché quando hai un testo come quello di Shakespeare e lo vuoi riattualizzare potresti veramente perderci una vita. Quello che non volevamo fare è lavorare sul dialetto ma lavorare su un italiano mescolato con una lingua “poetica” com’è quella di Shakespeare. La difficoltà maggiore è stata riuscire a trovare un linguaggio che fosse coerente con il personaggio ma nello stesso tempo non fosse lontano dal pubblico, che non lo allontanasse. Credo che anche la canzone, la musica, aiutino molto in questo percorso, perché i testi delle canzoni sono anch’essi frutto di un lungo processo. Dal testo shakesperiano l’inverno del nostro scontento è diventato una canzone meravigliosa dentro il film.
Shakespeare
Il pazzo, il foolish, che è presente in quasi tutti i suoi lavori, anche nel film c’è molto. Questa pazzia pervade tutto il film ma ovviamente nasce dal fatto che Riccardo esce dall’ospedale psichiatrico. La pazzia pervade tutta la famiglia Mancini, una famiglia “disfunzionale” che si può anche vedere come La famiglia Addams, perché no?
La Regina Madre
Roberta Torre: Abbiamo avuto come suggestioni iniziali due grandissime icone: Bette Davis e Jeanne Moreau in età avanzata. Parto sempre da spunti visivi e queste erano le due figure su cui volevo lavorare, ovviamente tenendo conto della differenza di età rispetto a Sonia. Poi c’è stato tutto il passaggio della trasformazione fisica, che chiaramente ha influito tantissimo. Per un attore dover lavorare su una maschera permette un’identificazione che da un lato è facile e dall’altro complicatissima. Questa figura per quanto mi riguarda doveva avere qualcosa di mostruoso, nel senso di monstrum latino, qualcosa che sciocca. La visualizzazione del mostro che Riccardo si porta dentro, ovvero la madre, colei che l’ha generato. Sonia ha fatto un lavoro straordinario su tutto il resto.
Sonia Bergamasco: Il trucco è stato importante: quattro, cinque ore di make up prima di cominciare a lavorare. La prima cosa che ho chiesto a Roberta è stata perché non avesse scelto un’attrice che fosse anagraficamente più vicina di me all’età del personaggio. E in effetti la sua risposta, le sue motivazioni mi hanno convinto, perché l’idea alla base era proprio quella di una trasformazione, di un impossessamento. Calandomi in questo mostro mi sono molto divertita, perché sento molto forte anche la dimensione del gioco. Nel vedere il film, dopo tutta questa fatica fatta per realizzare le scene in cui appare questa donna così truccata, la dimensione del gioco è molto forte. Musicale, di montaggio, di continue giravolte nella non narrazione, nelle visioni. È come assistere a un incubo a occhi aperti.
Roma come se
Roberta Torre. Mi piace che Roma sia rimasta come una sorta di città immaginaria perché di Roma realistica resta molto poco nel film. Resta un Corviale iniziale, che per me è una periferia simbolica, per quanto si riconosca relativamente. Roma per me resta un po’ un impero. È una Roma imperiale, quella a cui ho pensato, quindi non quotidiana, contemporanea, e comunque anche la periferia dell’impero. Mi piaceva il passaggio dall’antico al moderno, l’idea di questa strana famiglia di estrazione reale calata in una situazione di traffico di stupefacenti – è assurdo che una famiglia reale si dedichi a ciò – quindi un film storico calato nel presente.
La costruzione del personaggio di Riccardo
Massimo Ranieri. Sono stato subito d’accordo sul fatto che non potesse essere un Riccardo “alla Massimo Ranieri”. La rasata a zero, la gobba, la zoppía… mano a mano Roberta mi mandava dei disegni da studiare. Siamo arrivati all’occhio bistrato e a quel costume bellissimo, quel mantello che forse ha fatto scattare tutto. Penso alla notte in cui abbiamo girato proprio a Corviale la mia uscita dall’ospedale psichiatrico e nell’inquadratura dopo mi ritrovo a casa attraverso questo sotterraneo pieno di topi; quando mi sono rivisto in quell’inquadratura di spalle con quel mantello ho pensato a Nosferatu di Murnau. Inteso non come succhiasangue ma come vampiro d’amore. Un vampiro devastato dalla mancanza d’amore, della madre, della famiglia, per cui riversa tutto sulla violenza, gli altri pagano quello che lui non ha. La cosa che più mi ha colpito di tutto questo è questa storia così “semplice”, primordiale, da tragedia greca. Mi affascinava, come anche nel Riccardo III che ho messo in scena a teatro, lo scontro così violento con mia madre. Ecco cos’è che mi attira di questo mantello, perché mettendolo addosso ho capito che era qualcosa che mi apparteneva come personaggio, questo sentimento lacerante che lui porta dentro per colpa della madre: l’aridità dell’affetto che non ha mai avuto.
La collaborazione con Mauro Pagani per la musica del film
Roberta Torre. È stata una scelta dettata anche dal fatto che io tenevo molto al lavoro sulla voce, anche di Massimo. Ero sicura che loro due avrebbero potuto lavorare bene insieme, essendo Mauro un musicista molto esperto. Credevo che questo sarebbe accaduto più riguardo la musica che sui testi, ma in realtà poi Mauro ci ha sorpreso tutti facendo un lavoro straordinario sui testi, che sono complicatissimi, perché io non ho fatto altro che dargli Shakespeare e dirgli “scrivimi delle canzoni”. Per un musicista credo che partire da lì sia un rischio notevole. Inoltre Pagani ha avuto la responsabilità di partire per primo, di scrivere le canzoni e farle incidere alle voci di Massimo e Antonella Lo Coco prima che noi andassimo sul set. Abbiamo dovuto lavorare insieme sulla voce del personaggio, che diventa il personaggio stesso. Questa voce buia, cupa, tendente ai toni bassi, alla Tom Waits, è qualcosa che abbiamo cercato tutti e tre insieme, partendo da quello strumento straordinario che è la voce di Massimo, è stato un percorso affascinante ma anche irto di ostacoli. Poi su quella voce è stato costruito anche il suo personaggio successivo, perché ha dovuto mantenere quel tipo di voce anche nelle parti recitate.
Ostacoli di che tipo?
Massimo Ranieri. Be’, metti in moto delle corde che usualmente non usi, prima di tutto per proteggerle. Dico sempre ai ragazzi “non toccate le corde”, perché sono sacre, si devono toccare solo nel momento in cui se ne ha bisogno veramente, si sono rilassate e si possono toccare e vibrare. Se le stressi rischi la raucedine, rischi grosso. Con Mauro avevo già sperimentato in un mio vecchio musical una voce del genere. Certo, se esercitassi quella voce ogni sera a teatro per un musical non ce la farei, ma così, per un film così particolare, essendo io molto curioso delle cose della vita, interpretare un Riccardo così dark e fascinoso è stato affascinante.
Trovare la voce della Regina
Sonia Bergamasco. All’inizio c’era l’idea di far cantare anche la Regina Madre, rifacendoci a Mozart, alla Regina della Notte del Flauto Magico, poi l’abbiamo abbandonata. Nel lavoro sulla voce sono partita dalla faccia che avevo, dal corpo che assumeva questa faccia. Una voce credibile, anche di fumatrice, una voce di una donna con un vissuto che poteva essere raccontato da quella maschera. È stato per me un lavoro molto interessante, ho colto quest’occasione per fare qualcosa che è difficile poter fare, al cinema: dare vita e credibilità a una maschera.
Il décor
L’idea era quella di lavorare su colori freddi, per tutto tranne che nelle scene musicali, dove ogni tanto arriva qualche colore caldo detestato dal costumista, con qualche rosa, rosso, arancione. A me nel musical piace lavorare su una tavolozza pittorica, pensare a dei quadri: la parte musicale è bella quando ti dà la possibilità di dipingere questi personaggi e mondi.
Il lavoro sulla colonna sonora
Mauro Pagani. La parte più elettrizzante del lavoro è stata leggere la sceneggiatura, parlare con Roberta, leggere Shakespeare, poi decidere i testi, che ho scritto per primi. Lei li ha approvati, a quel punto mi sono tranquillizzato e poi tutto è avvenuto abbastanza automaticamente. Nelle canzoni il testo è fondamentale; tutti noi ci concentriamo sulle doti vocali dell’interprete di un pezzo ma una canzone è una persona che ti sta dicendo una cosa, e il come te la comunica è fondamentale, è ciò che fa la differenza tra le grandi canzoni e quelle che dopo un po’ non lasciano il segno e vanno. Ho avuto la fortuna di lavorare sul testo da musicista partendo da Shakespeare, è stata una vacanza per il cuore e per la mente. Mentre scrivevo il testo già avevo in mente una melodia. Come diceva De André, “le canzonette devono emozionare”, nel senso che quello che distingue la comunicazione nella canzonetta dalla grande musica classica è che può essere schiava dei sentimenti, e sull’emotività basa la sua forza. Il compositore classico cerca di non essere troppo emotivo, mentre noi compositori di canzonette possiamo permetterci di essere emotivamente vulnerabili. Per un personaggio come Riccardo è venuto automatico.
Foto di Paolo Galletta