Valerio Jalongo: L’acqua, l’insegna la sete va oltre l’esperienza scolastica

Nella vita tutto è legato a qualcos’altro, come ben esemplifica la poesia di Emily Dickinson utilizzata come titolo per il bellissimo documentario di Valerio Jalongo che racconta l’esperienza della classe 1E dell’Istituto di Istruzione Superiore Statale Roberto Rossellini di Roma che nel 2004, con lo stesso Jalongo e con Gianclaudio Lopez, professore di italiano oggi in pensione, aderisce al progetto per realizzare un video-diario della durata di tre anni per documentare quello che succede in classe. A distanza di 15 anni, Jalongo e Lopez tornano a incontrare sei alunni (Lorenzo Albrizio, Jessica Carnovale, Gianluca Diana, Corinna Iacobini, Alessio Schippa e Yari Venturini) per chiudere il discorso iniziato allora, osservandoli nella loro quotidianità e facendo loro leggere i temi scritti da adolescenti, vere e proprie confessioni che suscitano in questi giovani adulti (e negli spettatori) emozioni profonde. L’acqua, l’insegna la sete è un film prezioso, necessario, che tutti dovrebbero vedere perché parla senza retorica alcuna del mondo della scuola, della passione e dedizione di alcuni insegnanti illuminati (quelli che, per dirla con Umberto Galimberti, possiedono la dote della «fascinazione»), ma anche della nostra società e di cosa siamo diventati. Abbiamo incontrato Valerio Jalongo.

 

 

 

Ci racconti come è nato il progetto del video-diario?

All’epoca sia il professor Lopez, il protagonista, sia io eravamo docenti di quella scuola. E anno dopo anno assistevamo a una specie di strage silenziosa di ragazzi. Purtroppo in queste scuole che non sono i licei vanno i ragazzi di famiglie meno fortunate, ed è un po’ la cruna dell’ago della scuola italiana perché alle elementari e alle medie si tende a promuovere tutti, poi quando si arriva alle superiori – ancora nell’obbligo scolastico – tutta l’ipocrisia e quello che non è stato fatto negli anni precedenti viene al pettine. Questi ragazzi, pur avendo delle qualità umane ed esistenziali evidenti, non venivano in alcun modo aiutati dalla scuola e molti abbandonavano. Il progetto del video-diario è partito da una mia idea di racconto lungo perché mi sembrava l’unico modo per dar loro voce senza retorica. Ovviamente bisogna fare i conti con le difficoltà nel girare in circostanze del genere (non si può usare una troupe, non si può dare per scontato nulla perché i professori devono essere d’accordo, i ragazzi devono essere autorizzati dai genitori…), ma il progetto è stato abbracciato da un gruppo di docenti che hanno accettato di insegnare in questa classe. 

 

Come è stata scelta la classe?

Abbiamo tirato a sorte tra le tante prime, se non ricordo male nel 2004 si arrivava fino alla M o addirittura alla N, e così la 1E iniziò questo progetto didattico approvato dal Collegio docenti per contrastare la grave dispersione scolastica. 

 

L’istituzione scolastica è però destinata al fallimento: anche nella classe in questione ci sono alunni che gettano la spugna. 

Siamo un Paese un po’ ipocrita, bisognerebbe riconoscere che la nostra scuola non ha saputo rinnovarsi, accogliere le sfide della modernità. Continuiamo a imporre l’idea di una classe esattamente come la si imponeva nell’Ottocento, ma la società non è più monolitica come quella di allora e quindi non riusciamo davvero a seguire questi ragazzi, queste enormi diversità che cerchiamo di accogliere dentro le classi, perché ci sono delle voragini tra un ragazzo e l’altro. È inevitabile che anche un bravo insegnante come Lopez a un certo punto si deve arrendere. L’unico successo del progetto è che questa fiducia che si era creata all’epoca abbia, in qualche modo, attraversato il tempo e ci abbia consentito di completare insieme il progetto.

 

 

Fin dall’inizio era previsto l’incontro, a distanza di 15 anni, con gli ex alunni?

Assolutamente sì. E trovo meraviglioso e commovente che questi ragazzi ormai adulti abbiano accettato di far parte di un’operazione artistica, perché non era più un progetto didattico, era diventato quello di una piccola comunità che ha accettato di riprendere in mano qualcosa iniziato molto tempo fa. Certamente non l’hanno fatto per i soldi che non c’erano…

 

L’incontro con voi magari non ha cambiato la loro vita ma se lo sono portati dentro, basta ascoltare cosa scrivevano già all’epoca nei temi.

Sicuramente Lopez è rimasto dentro molti di loro e questo si vede dai temi e dalle loro reazioni, dal fatto stesso che si confessavano: non erano temi accademici, erano temi di ragazzi che si confidano a un adulto che sentono vicino e autorevole. C’è un lascito, la scuola non fallisce in toto. Credo fallisca quando fa delle promesse che poi non riesce a mantenere, per esempio quella di dare un lavoro, cosa che secondo me nell’età dell’obbligo non dovrebbe essere l’obiettivo di una scuola pubblica.

 

 

A proposito di reazioni, questi incontri a distanza di anni hanno quasi il valore di una seduta psicanalitica, molti di loro si commuovono fino alle lacrime rileggendosi.

Sicuramente sono testimonianze della complessità che ci troviamo di fronte quando entriamo in una classe. Devo dire che questo film non ha cambiato solo il mio punto di vista come regista, ma mi ha cambiato anche come insegnante nel senso che è chiaro che molte di queste storie i ragazzi allora non le raccontavano o non le sapevano raccontare perché non riuscivano a metterle a fuoco o non le potevano raccontare (penso a Yari che non poteva dire che sua madre spacciava). Spesso ci troviamo a combattere una battaglia in cui non serve mettere il voto sulla materia, ma bisognerebbe mettere a fuoco un intervento umano a tutto tondo. Purtroppo quando uno come Alessio esce dalla scuola, poi non rientra più e non è un caso che siamo il Paese con la percentuale più alta di abbandono scolastico quindi c’è qualcosa di profondamente sbagliato.

 

Cos’è cambiato tra ieri e oggi?

Quando abbiamo concepito il film e lo abbiamo presentato a scuola come progetto didattico si chiamava Storia di classe e c’era appunto un’idea se vogliamo più sociologica, più di denuncia di uno stato di cose. Quando abbiamo reincontrato i ragazzi ci siamo resi conto che ci portavano altrove, in una dimensione che andava oltre la loro esperienza scolastica perché in fondo dei sei personaggi principali tre hanno finito la scuola con un diploma, tre hanno abbandonato, ma nei loro destini, nelle loro scelte individuali non si nota una differenza così radicale. Questo ancora di più interpella la nostra idea di scuola e per questo il film non è solo il racconto di un’esperienza scolastica. Forse il grande regalo che i ragazzi hanno fatto a me e al film è proprio il loro spessore umano, la loro qualità di esseri umani che hanno preservato nonostante la durezza della società italiana di questi anni. Quando noi insegnavamo nel 2004 in fondo facevamo delle promesse in buona fede pensando a un mondo che assomigliava più o meno a quello che c’era stato fino ad allora. Poi, dopo la crisi del 2008, tutto è cambiato.

 

 

Il professor Lopez a un certo punto dice che i ragazzi «sono talmente presi dal loro senso di noia che trovano noioso tutto», ma si vede che hanno aderito con entusiasmo al progetto.

Pensa che quasi tutte le riprese più belle che si vedono nel film sono state fatte da quelli che vengono definiti “i bulli della classe”, che poi manco a farlo apposta erano quelli che più di tutti vivevano una difficoltà nell’adattarsi alla scuola, a quelle che sono le etichette di una dimensione scolastica che loro evidentemente non avevano mai vissuto in maniera positiva, quindi non riuscivano a fare proprio lo spazio, l’aula e il dialogo scolastico. Nell’esperienza del video-diario c’era un’idea alta del cinema come racconto, come presa di coscienza di una comunità anche se piccola come quella di una classe, come possibilità. Dal primo giorno abbiamo dato ai ragazzi delle telecamere, che tenevano in una scatoletta in aula, che potevano gestire in completa autonomia. Spesso le hanno usate anche contro di noi, alcune delle scene più belle dei professori che si arrabbiano ci sono perché loro riuscivano a girare senza che ce ne accorgessimo. In questo modo siamo riusciti ad avere un’autenticità che se il film fosse stato girato con un mezzo tradizionale non avremmo mai conseguito. Del resto vedendolo adesso, anche con il pubblico, mi sono reso conto che la fragilità di queste immagini viene percepita proprio come speravo, ovvero come qualcosa di poetico: sono immagini che appartengono a un’esperienza che normalmente va perduta per sempre, quel periodo un po’ magico in un’aula in cui ancora tutto è possibile nella vita, e hanno un carattere quasi archeologico nella loro fragilità, nella loro scarsa definizione insieme alla loro grandissima energia perché in fondo sappiamo bene quanta energia possono avere i ragazzi, se solo si riuscisse a incanalarla…

 

Purtroppo il film è stato molto penalizzato nella distribuzione (solo tre giorni a fine novembre), ma grazie al passa parola continua il suo cammino in sale di qualità. 

La pandemia ha reso ancora più violento il rapporto del cinema indipendente con le sale, che sono tutte ricattate dalle grosse distribuzioni. La sala non ha scelta, in qualche modo ci hanno espulso nonostante, in molti casi, abbiamo fatto dei buoni numeri: all’uscita eravamo il terzo incasso media copie, però queste cose non contano e in un momento come questo ancora di più. Ho accompagnato il film in varie proiezioni e per la prima volta ho visto in sala più giovani che anziani in cinema che di solito i giovani scansano. Lo stesso vale per le matinée con le scolaresche: normalmente i ragazzi solo per il fatto che è una proposta che viene dalla scuola la vivono come un’imposizione, quindi entravano con questo atteggiamento e dopo cinque minuti erano completamente risucchiati dal film perché il riconoscimento è immediato e funziona. Tutto questo mi ha riempito il cuore di gioia.

 

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