Legato al concetto di origine c’è anche il concetto di fine. In ho avuto la precisa sensazione che ogni singola immagine potesse essere contemporaneamente l’ultima, non solo a causa della situazione di estremo pericolo in cui lei si trovava, ma per la natura stessa delle immagini, il senso in più di cui sono intrise.
Il film ha un certo fascino, anche se resta un po’ di ironia rispetto all’assurdità di fare un film del genere. Al di là del fascino e dell’ironia c’è qualcosa che fa riferimento alla fine delle immagini e, in questo senso, è stato giusto fare il film. Era questo il senso profondo che ci spingeva all’epoca – non parlo solo di me ma anche dei miei due operatori –, c’era una profonda serietà in ogni momento della lavorazione su quell’isola, e la consapevolezza che il vulcano poteva esplodere da un istante all’altro. In qualche modo, nascosta nel film, c’è anche la grande domanda del realismo: «Ha senso andare in un posto così e filmare con un pericolo tanto imminente, o avremmo invece fatto meglio a tenerci alla larga senza fare il film?». In questo senso, per me è un film molto importante e nel testo parlo molto chiaramente dell’assurdità della situazione, dell’inevitabile catastrofe che non è mai avvenuta.
Il film sembra anche un interrogativo sui limiti dello sguardo, su quello che lo sguardo riesce a percepire e, quindi, a mostrare.
Sì, è vero, è come aver mostrato qualcosa di invisibile. Si vedono la montagna, la giungla e il gas, ma noi eravamo su un vulcano che stava per esplodere e il pericolo è una cosa che non si mostra fisicamente sullo schermo, anche se gli spettatori se ne rendono conto. Abbiamo piazzato una macchina da presa su un cavalletto a venticinque chilometri di distanza che filmava a passo uno tutto il giorno, così, se noi fossimo saltati in aria con l’eruzione del vulcano, qualcuno avrebbe potuto ritrovare la macchina da presa e avremmo avuto almeno un’immagine dell’accaduto. Non era una follia, io sono una persona molto professionale e posso permettermi di rischiare. In questo caso era una scommessa alla cieca ma noi avevamo riflettuto a lungo prima, ognuno di noi aveva dovuto decidere per se stesso: Schmitt-Reitwein, il direttore della fotografia, disse subito di volersi unire, non voleva che io andassi da solo con la sua macchina da presa, mentre l’altro operatore, l’americano Ed Lachman, ebbe qualche esitazione, e io gli dissi che non doveva venire con noi per forza. Due macchine da presa sarebbero state meglio, ma con una potevamo farcela lo stesso. Ci mise un po’ ma poi decise di venire.
Ha cercato di filmare l’attesa ma l’attesa è impossibile da filmare.
Si tratta di un film su un’inevitabile catastrofe che non è mai accaduta, c’è una certa assurdità e nel film questo è molto chiaro. L’attesa è qualcosa di invisibile, come il vero pericolo. Lo senti quando sei a quindici centimetri da un orso che pesa quattrocentocinquanta chili e gli stai filmando il muso, e vedi le mani che si spingono verso di lui e lo toccano. In questo caso vedi il pericolo rappresentato in maniera chiarissima, in questo caso è visibile ed è folle stare così vicini a un orso e cercare di entrare in contatto con lui, a meno che non si abbia un comportamento non molto sano. Nemmeno filmare un vulcano è così sano, visto che le previsioni degli scienziati sostenevano che sarebbe potuto esplodere da un momento all’altro. E i segnali che un vulcano dà si capiscono molto bene. Sapevo che il Mont Pelé in Martinica era esploso già nel 1902 con segnali assolutamente identici. Gli stessi gas tossici, gli stessi eventi cinetici, anche se ogni vulcano ha un’identità diversa. Sapevano che era inevitabile. Può essere complicato, se sei un uomo sposato, con un figlio piccolo, decidere di partire per quest’impresa, perché nessuno sa se tornerai o meno.
Mi interessa anche il suo lavoro di montaggio, soprattutto in questo film. Come ha lavorato con queste immagini?
Non ricordo proprio il montaggio di questo film. In generale, lavoro sempre con un montatore perché non voglio confrontarmi da solo con il mio girato. È sempre salutare avere un altro paio di occhi quando monti ma l’approccio più importante è il grande rispetto per il girato e l’idea di guardarlo come se l’avessi trovato da qualche parte, come se – per grazia di Dio – mi fosse caduto tra le mani. Che cosa c’è davvero nel materiale, al di là delle idee e delle aspettative che avevo mentre giravo? Questo l’interrogativo che mi deve guidare. Molto spesso il materiale contiene cose che ti aspetti ma, altrettanto spesso, capita che ci sia del girato che ti sorprende, che comincia a sviluppare una sua propria vita. E se cerchi di comprimere il tuo materiale dentro a un modello, dentro a una forma, allora il materiale non riesce a sviluppare una vita propria. Se parliamo dei procedimenti tecnici, posso dire che mi piace guardare soltanto una volta tutto il girato, mettendoci una o due settimane. Negli ultimi dieci o dodici anni ho tenuto dei taccuini in cui ho scritto molto metodicamente ciò che contiene il girato, sottolineando i momenti importanti con punti esclamativi. Molto spesso, dal momento che scrivo mentre guardo il girato, esso si solidifica molto fortemente nella mia memoria e riesco perfettamente a memorizzare qualcosa come sessanta ore di materiale. Questa memoria non dura a lungo, dura soltanto per il processo del montaggio e svanisce abbastanza presto, ed è un bene che non duri. Decido sempre molto rapidamente, ho imparato a capire qual è il materiale più forte, che seleziono immediatamente. Metto tutto insieme come in un racconto, in un flusso di immagini che, normalmente, finisce con il film finito, di rado devo accorciare, ma di poco. Grazie a questo mio metodo sono molto veloce, non sono il tipo che prova venti versioni diverse della stessa sequenza, decido subito e vado immediatamente avanti. A volte i montatori si sentono frustrati perché li ascolto poco. Quando lo faccio e torniamo indietro succede sempre che non ne valeva la pena. Faccio così sia con i film di finzione che con i documentari. Ovviamente il fatto che io sappia come raccontare un film e che io sia un narratore nel profondo del mio cuore mi aiuta a trovare la giusta enfasi, il giusto flusso, il giusto ritmo, la musica giusta. Ovviamente faccio anche degli errori, ma è così che deve essere.
A proposito di quello che non si vede, in Grizzly Man è lei stesso a decidere di non farci ascoltare qualcosa, traccia come un limite che non si può oltrepassare.
C’è solo il sonoro. Quando l’orso attaccò Timothy, la videocamera era accesa ma il tappo copriva ancora l’obiettivo, quindi ciò che si vede sul nastro è tutto nero, ma il microfono ha continuato a registrare per sei minuti. Ho dovuto citarlo perché il distributore, il produttore e il canale televisivo mi chiesero di farlo. Tutti mi chiedevano che cosa ci fosse sul nastro. Quello è l’unico momento in cui mi si vede di spalle ma tu vedi che la donna, che era molto amica di Treadwell, cerca di leggere sul mio volto quello che sento: è un momento molto tragico e mi è stato immediatamente chiaro che non doveva, in nessun modo, finire nel film. Esiste un confine che non va oltrepassato. Ancora una volta mi sono trovato ad affrontare la questione dei limiti, che ho dovuto gestire già all’inizio della mia vita professionale. Esiste un confine che non deve essere varcato e il confine è costituito dalla privacy e dalla dignità della morte di un individuo. Inoltre era orribile al di là di ogni descrizione.
Non è la prima volta che decide di non “mostrare” qualcosa.
C’è un momento simile in Il diamante bianco. Ma in quel caso mostrare quello che c’era nella grotta dei rondoni non era così interessante perché, dietro a quella monumentale cascata, in quella gigantesca caverna, era molto buio. Due giorni dopo parlammo con l’ex capo tribù e quando, improvvisamente, si rese conto che avevamo filmato ciò che c’era dietro alla cascata, ci chiese di non diffondere le riprese perché, in qualche modo, avremmo rivelato aspetti della loro cultura e le immagini l’avrebbero distrutta. Non era la cosa giusta da fare. Anche in Dove sognano le formiche verdi c’è un oggetto avvolto in una coperta. Gli aborigeni mi chiesero di coprirlo perché avevano portato con sé un oggetto autentico che era stato nascosto da qualche parte sulle montagne, tra le rocce, sin dai tempi dei loro antenati. Non so assolutamente che cosa fosse, anche se ho qualche idea. Forse avrebbero acconsentito a mostrarlo alla macchina da presa, ma penso che sia stato più affascinante non aver fatto vedere ciò che è nascosto nella coperta, quell’oggetto e quella scena acquistano più profondità, ci costringono, in quanto pubblico, a mettere in moto la nostra fantasia al di là di ciò che vediamo.
A volte nei suoi film ho l’impressione di vedere la prima immagine, di aprire gli occhi per la prima volta.
L’enigma di Kaspar Hauser è ovviamente molto legato a questo argomento. A che cosa significhi uscire da una cantina buia dopo esservi stati da sempre rinchiusi e vedere la verità per la prima volta, o una casa, o altri esseri umani. Questo fa chiaramente parte del soggetto del film. Forse è così, ma aprire gli occhi per la prima volta ha già una qualità in sé e significa guardare il mondo, guardare le immagini per la prima volta, ma con grande compassione e ammirazione. Io stesso sono innamorato del mondo, mi sveglio e sono innamorato del mondo. Questo è un modo molto significativo di vedere il mondo e, a volte, nella giungla – come ho detto nel documentario Burden of Dreams di Les Blank – io amo la giungla, e lo dico contro il mio interesse. Amo ancora la giungla anche se la giungla mi ha fatto del male, ha quasi distrutto me e il film che stavo facendo. Tuttavia guardo ancora alla giungla con amore, ma contro il mio interesse. È tutto contenuto nel finale di Encounters at the End of the World. Questo è esattamente ciò che si trova molto spesso nei miei film: l’osservazione stupita di qualcosa che ha in sé tanta grande bellezza e importanza.
Come in L’ignoto spazio profondo, Il diamante bianco e Grizzly Man.
Sì, e anche in Rescue Dawn. Una persona che cade dal cielo, abbattuta, dopo otto minuti di film, e che si ritrova sul suolo di un Paese che non si sarebbe mai aspettato così. Vedere la gente del posto che osserva coloro che l’hanno catturato è qualcosa di completamente nuovo, e lui li guarda non con disgusto, ovviamente, ma con attenzione, curiosità e trasporto. Anche se è stato torturato, maltrattato e imprigionato, nonostante ciò, inizia immediatamente a imparare da loro, a osservarli come fosse la prima volta, e a escogitare modi per scappare, impara ad accendere il fuoco senza fiammiferi, ad esempio, e impara tutti gli stratagemmi che lo terranno in vita durante la sua lunga fuga.
Nel cortometraggio che ha fatto per Ten Minutes Older c’è una situazione simile.
Quella è stata la prima volta che l’ho provata con un gruppo. Il protagonista, l’uomo cui mi sono rivolto, era davvero distrutto quando ha visto il film, perché il settanta per cento della sua tribù era stato spazzato via in un anno dalla varicella e dalla malattia. Non avendo, per più di diecimila anni, acquisito l’immunità a molte nostre malattie, sono stati uccisi anche da una semplice influenza. Questi indigeni captano anche il diverso sentimento del tempo che li separa da tutto il resto, non solo le immagini e le strane creature che hanno auto ed elicotteri. È anche una questione di comprensione del tempo, perché là fuori ci sono persone che misurano il tempo con un diverso criterio. Amo molto questo film, ha una sostanza molto strana e immediata, e la vera difficoltà nel fare un film del genere, avendo solo dieci minuti a disposizione, è che si tratta di un grande esercizio di disciplina e narrazione –, il narratore, in questo caso, ha degli enormi limiti. Il mio film ha diecimila anni perché il primo minuto è come se fosse spinto diecimila anni nel futuro, dal loro punto di vista, con conseguenze catastrofiche.
E quali sono le conseguenze per noi che guardiamo queste immagini?
Non lo so, perché non so chi siamo “noi”, ma si fa riferimento a qualcosa che, per me, è diventato sempre più importante. Quelli erano gli ultimi, l’ultimo grande gruppo che non era mai entrato in contatto con la nostra civiltà bianca e tecnologica. Forse ci sono ancora alcuni gruppi molto piccoli da qualche parte, forse venti o trenta, nell’area di confine tra Bolivia e Brasile, ma certamente non ci sono più gruppi numerosi. È finita, li abbiamo in qualche modo “fatti fuori”. Oltre al concetto di tempo di cui parlavo, per me c’è anche la questione delle lingue. Nel corso della tua vita, il novanta per cento delle lingue morirà, ciò significa che ogni lingua che muore è una catastrofe, è come se l’ultimo spagnolo o l’ultimo italiano morissero, niente più Dante, niente più Virgilio. Se scomparisse la lingua russa, non ci sarebbero più Tolstoj, né la Achmatova o Pasternak. In Australia ho incontrato un uomo che era l’ultimo a parlare la sua lingua: era considerato muto perché non aveva nessuno con cui parlare, nessuno che lo capisse, a volte cantava, ma quel che ho visto e che considero particolarmente tragico è che lui, nella sua solitudine, si recava al distributore automatico delle bibite, che era vuoto. Aveva le tasche piene di monete, inseriva le monete nella fessura e gli piaceva ascoltare il rumore delle monete che rotolavano dentro. Alla fine della giornata, il personale di questo posto apriva il distributore, recuperava le monete e gliele riconsegnava. So che in questo preciso momento ci sono almeno una dozzina di lingue che hanno un’ultima, definitiva, terminale persona che le parla.
Anche in Fata Morgana incontriamo un uomo che parla una strana lingua.
Sì, ma la scena è stata girata in Mali e l’uomo parla il dugong. Non ho mai saputo che cosa ha detto e non ho chiesto che fosse tradotto, l’ho tenuto nel film così com’è e spero che nessuno faccia mai lo sforzo di trovare qualcuno che parla dugong per tradurlo, non voglio che sia tradotto, deve restare così com’è.
Quando ha usato per la prima volta la sua voce per accompagnare le immagini dei suoi film?
È stato per La grande estasi dell’intagliatore Steiner, che venne realizzato all’interno di una serie televisiva. La caratteristica di questa serie era che i documentari non dovevano avere un commento anonimo, il regista doveva apparire nel film, e non soltanto per leggere il commento. Si doveva essere fisicamente presenti nel film e questo fu per me molto difficile, dover stare di fronte alla macchina da presa e parlare. A film finito, ebbi la sensazione che la mia presenza avesse dato al lavoro un certo tipo di autenticità, qualcosa di più credibile, di più intenso. Da quel momento in poi ho cominciato a leggere personalmente i miei commenti e a usare la mia voce over.
In questo senso, ho l’impressione che i suoi film siano capitoli di un diario molto intimo.
Potrebbe essere, ma bisogna fare delle distinzioni. In Grizzly Man, ad esempio, il commento non è un diario, è più antagonistico, a volte devo interrompere il corso della storia e “discutere” con Timothy Treadwell. Ovviamente non era più in vita, era stato sbranato da un orso, insieme con la sua fidanzata, dieci mesi prima. Nonostante ciò avevo una specie di continua disputa con lui. Non è dunque un diario ma, piuttosto, un contraddittorio. A volte, non sempre, stabilisco una serie di eventi e il commento può assomigliare quasi a un diario, ma probabilmente solo nel profondo di me stesso, al di là delle categorie diaristiche. A pensarci bene, però, devo ammettere che si può riconoscere davvero una specie di cronaca in profondità di me stesso nel corso degli anni e dei film.